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ITALIANI BRAVA GENTE

 

 «Ho visto i nostri bruciare le case»


Le testimonianze dei bersaglieri Tornati dall'Iraq, gli uomini della Brigata Garibaldi raccontano di violenze, abusi e furti compiuti da loro commilitoni contro la popolazione civile. «L'abbiamo riferito ai nostri superiori, ma non potevamo
fare denunce formali. Se lo avessimo fatto, la nostra carriera sarebbe finita»
ROBERTO SAVIANO (Caserta)
«In Iraq i nostri commilitoni si divertivano a circoscrivere le abitazioni di alcuni sospetti con la benzina, accendevano e guardavano il fuoco avvolgere la casa di quei poveri cristi che urlavano. Poi spegnevano e arrestavano questa gente. Ma nella maggior parte dei casi risultavano del tutto innocenti». Questi i racconti dei soldati appena tornati dopo oltre sei mesi passati in Iraq alla caserma Garibaldi nel cuore di Caserta. Gli uomini della Brigata Garibaldi hanno battuto ogni terreno di guerra: Somalia, Kosovo, Mozambico ed adesso l'Iraq. Incontriamo un gruppo di «reduci» in un bar dove quasi sempre si raccolgono i bersaglieri in libera uscita. Hanno finito il loro primo ciclo in Iraq. Torneranno li giù molto presto. Il caporale G.M. è il primo che vuole raccontare della sua esperienza. Parla con un espressione a metà tra la stanchezza e il disgusto: «Non dimenticheremo mai cosa abbiamo visto. Miseria totale, ragazzini che ti si attaccavano agli anfibi per una bottiglietta d'acqua, donne anziane che dormivano per terra con piaghe dappertutto». I militari sono stanchi ma anche sconvolti. Chiedono di non citare il loro nome ed aggiungono che «non è la prima volta che un bersagliere viene punito e messo sotto inchiesta perché parla con i giornali». Tutti hanno un ricordo terribile, ognuno ha assistito a scene di fame e malattia. Lo raccontano come se qui le persone non ne sapessero nulla. «Ai tg noi vediamo un altro Iraq. Quando racconto cosa ho visto mia madre mi dice, ma sei sicuro che sei stato in Iraq? Non capisco perché la televisione non dice niente, non fa vedere niente». «E' vero - aggiunge P.L. è l'unico in abiti borghesi - ai telegiornali non ho mai visto immagini di uomini che si muoiono di fame e di bambini che scavano per cercare di rompere qualche tubatura dell'acqua e bere. In Iraq ogni volta che ero di pattuglia ne vedevo centinaia di scene così».
Chiediamo se gli aiuti del volontariato internazionale riescono ad arrivare, se c'è una capillarità di distribuzione se gli Usa permettono che i pacchi umanitari arrivino ovunque. «Altro che aiuti - interviene F.L. - ho visto i marines entrare in case di sole donne. Mettevano i mitra in faccia alle donne e stringevano le manette ai polsi di ragazzini che non avevano più di 5 o 6 anni. Io ho foto di bambini messi faccia al muro come criminali, fatti inginocchiare, schiaffeggiati». Sulla combriccola cala silenzio. Non ha tutti evidentemente piace ricordare questi episodi, soprattutto davanti a un giornalista. F.L. è un maresciallo appena uscito dall'accademia di Modena. Vota a sinistra «forse sono l'unico bersagliere che vota a sinistra della caserma» dice sorridendo mentre i commilitoni lo prendono in giro. «E gli italiani?» «Degli italiani preferirei lasciar perdere...».
I bersaglieri invece vogliono parlare, basta poco per tirare il tappo e far uscire ciò che ingorga le loro coscienze da tempo. Gli altri ragazzi tacciono. F.L. e C.L. caporale maggiore iniziano a raccontare un episodio visto con i loro occhi. «Alcuni nostri commilitoni si divertivano a circondare le case di alcuni sospetti, dargli fuoco e guardare bruciare la casa. Poi spegnevano e arrestavano questa gente che risultava la maggior parte delle volte del tutto innocente». Gli domandiamo se hanno denunciato quanto hanno visto «In modo informale» risponde F.L. Che significa? «Che non risulta una mia denuncia formale - continua- ne ho parlato con i superiori e basta. Se avessi denunciato formalmente, la mia carriera sarebbe finita lì. Preferisco cambiare le cose da dentro e senza clamore. Ci tengo all'Esercito, io sono un bersagliere». P.E. dice che lui non ha visto mai violenze degli italiani e racconta: «Gli americani appena entrano in una casa pensano ad accanirsi su chi ci abita, gli italiani invece al massimo prendono tutto ciò che c'è da prendere. Un amico è riuscito a fregarsi due orologi e quattro spille d'oro». Eppure si vedono solo immagini di arresti in case di fango, in stamberghe, arresti di individui che non hanno altro che il proprio rinsecchito corpo. «Io dice C.L. ho fatto perquisizioni in case di ex dirigenti di polizia e di due imprenditori vicini a Saddam. Avevano in casa di tutto, orologi d'oro, dvd, televisori, lampadari di cristallo, un parco macchine da paura. Durante la caduta di Saddam avevano le guardie private che non facevano entrare i disperati e gli Usa non li arrestarono, i dirigenti non li arrestarono sperando che passassero dalla loro parte. Qualcuno l'ha fatto ma a suon di calci in pancia e sberle...». Anche gli italiani hanno pestato? «Io - risponde P.E.- non ho mai visto picchiare come ho visto fare ai marines nessun italiano. Mai». E aggiunge scherzando: «Neanche in Italia».
 

Senza legge a Nassiriya
«Arrestavamo tutti, vecchi, donne, bambini per fare numero, per dimostrare che combattevamo i terroristi. Ma poi dovevamo star fermi, anche davanti al traffico di armi, per non provocare la guerriglia. Come quando venne Berlusconi». Il racconto dei militari della Garibaldi tornati dall'Iraq

«Mi hanno addestrato a rispettare le persone. Io sono andato in Iraq per fare il mio dovere e il mio dovere non è arrestare ragazzini e mettere le manette ai polsi a vecchi signori che somigliano a mio nonno». E' arrabbiato il caporale della brigata Garibaldi che vuole rimanere anonimo per paura di ritorsioni, quasi gli salgono le lacrime agli occhi. «Ogni mattina ci dicevano di andare a sud e pattugliare. Col tempo e con i rimproveri e le punizioni abbiamo capito che se non tornavamo con un sostanzioso gruppo di fermati per noi non sarebbe stata vita facile in Iraq». Come venivano scelte le persone da arrestare?. «Entravamo in case dove non bisogna neanche sfondare la porta, basta spingerla con un dito per farla cadere. Non esisteva un criterio. Prendi quelli che ti capitano, se giovani uomini meglio, ma anche donne sole». Perché donne sole? «Se mogli, sorelle, madri di guerriglieri possono dare qualche informazione». «Io capisco l'arresto - dice N.F. bersagliere pugliese - perché i terroristi sicuramente sono gente normale, anche anziani magari, ma quello che non capisco sono i modi con cui li dobbiamo ammanettare, mettere il cappuccio contro i morsi, perquisire anche le donne che non nascondono nulla ed appena ti avvicini iniziano a piangere». Il bersagliere si ferma e si allontana, non vuol raccontare di più. Continua il caporale: «Quando li portiamo al comando questi non dicono nulla. l'interprete inventa tutto lui e questo lo posso assicurare perché sia uomini che donne che ragazzini davanti all'autorità militare rimangono pietrificati, zitti. Terrorizzati non dicono niente di niente, a stento il loro nome». Torture, violenze? «Mai. Né schiaffi, né pugni, niente. Non ho mai visto niente di tutto questo. Nessuna tortura, del resto si vede in faccia che questi non sanno niente. Li si arresta, li si fa stare inginocchiati per tutta la mattina con le mani legate dietro la schiena. Senza motivo. Gli ufficiali dicono che è la prassi. Io alla Garibaldi non ho avuto questo insegnamento».
«Bisogna capire - ricorda il caporale - che non è di nostra competenza arrestare e fermare gente. Ma serve. Serve agli alti ufficiali, serve a mostrare che teniamo sotto controllo il territorio, serve ai nostri superiori, ai tenenti che se ne stanno dietro il computer, serve per dimostrare che conosciamo i terroristi dell'intera provincia di Dhi Qar. Non è vero nulla. Qui il 90% della gente non ha neanche la forza di fare il terrorista, da qui passano i guerriglieri e le armi ma appena c'è un po' di movimento noi veniamo tolti di mezzo».
I ragazzi descrivono una situazione in cui appena c'è la possibilità di interrompere una reale operazione di guerriglia i superiori decidono di battere in ritirata. Un atteggiamento che piuttosto esser definito come sana scelta di prudenza sembra frutto di una precisa strategia politica decisa ad annullare il rischio perdite. «Io personalmente - dice C.L. caporal maggiore - avevo segnalato tempo fa sulla strada che porta a nord di Nassiryia dei camion sospetti, perché non avevano né il segno della mezzaluna né della croce rossa, e in più erano piccoli rispetto ai camion usati per gli aiuti. Ma ci fu impedito di intervenire». «Preferiscono farci stare tranquilli, però così ci esponiamo di più al terrorismo. Se stiamo fermi, se lasciamo agire prima o poi ci colpiranno, come hanno già fatto. Ma se non abbiamo la forza di contrastare la guerriglia non ci dovevano proprio far venire». Interviene l'anonimo caporale: «Io sparo per primo. Se vedo uno con un fucile non urlo di buttarlo a terra, io sparo. Noi diciamo sempre meglio un cattivo processo che un buon funerale. Ma qui ho imparato a stare attento, quelli che il comando dice essere terroristi e che quindi vai ad arrestare con il fuoco in pancia risultano essere dei poveracci, magari ex poliziotti o ex militari. Gente innocua».

«Quando è venuto Berlusconi a Nassiriya - continua l'anonimo caporale - ogni soldato aveva l'ordine di pattugliare, ma di non intervenire mai. Non arrestare, non rompere le palle a nessuno. Se tu non tocchi la guerriglia la guerriglia non tocca te. In quei giorni avemmo notizia anche di un passaggio di armi verso Tallil, rischiosissimo perché strategicamente è un nostro punto di forza, ma non intervenimmo, non bisognava infastidirli. I terroristi non avrebbero dato fastidio all'arrivo di Berlusconi se noi non davamo fastidio alle loro operazioni. E così è stato». I ragazzi sono rimasti sconvolti dall'attentato di Nassiriya. «Non dimenticherò mai», dice C.L. «Ho la foto di tutti i morti nel portafoglio», aggiunge il caporale. «Ma è ovvio - dice C.L. - che se continuiamo a stare fermi diventeremo bersaglio sempre più facile».

il manifesto - 04 Settembre 2004                   

 

                

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