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KAMIKAZE       

 

Il Manifesto 16/9/2004

Le nostre comode rimozioni

Indigniamoci anche per i nostri orrori per combattere  quelli «altrui»

GUIDO VIALE

Il primo kamikaze che la storia ricordi è un ebreo di nome Sansone che si suicidò esclamando «Muoia Sansone con tutti i filistei!» e fece crollare il tempio dove era riunito il popolo dei suoi nemici (Giudici, 13 -19). Morirono in tremila: tanti quante le vittime delle Twin Towers. I filistei abitavano il paese che da loro prende il nome di Palestina e già allora erano in guerra con le tribù di Israele che avevano invaso il loro territorio: una guerra costellata di massacri benedetti da Yahweh, un dio tutt'altro che misericordioso, a cui peraltro si rifanno anche cristianesimo e islam. E' però semplicistico identificare gli antichi filistei con gli attuali palestinesi, che erano, per lo meno fino all'esplosione del conflitto arabo-israeliano, solo una delle tante componenti di una più ampia comunità araba mediorientale; o identificare le tribù dell'Israele biblica con gli attuali cittadini dell'omonimo stato; o addirittura con la comunità ebraica, che, nella sua componente askenazita, discende, secondo Arthur Koestler, dalla popolazione caucasica dei kazari, che, a differenza degli arabi e degli ebrei sefarditi, non ha nemmeno radici semitiche (pur essendo stata la vittima principale dell'antisemitismo). Come sarebbe arbitrario - lo aveva fatto notare Gregor Bateson - identificare gli italiani con i cittadini dell'antico impero romano, il cui governatore della Palestina mise a morte Gesù Cristo nell'anno 33 dell'omonima era.
Invocare gesta di improbabili antenati di due o tremila anni fa per legittimare scelte dell'oggi è una manomissione: ogni essere umano che nasce è una pagina bianca che non può portare il fardello di scelte fatte o subite dai suoi predecessori. Per questo gli insediamenti ebraici in Palestina non sono una riedizione dell'esodo mosaico verso la «Terra promessa», ma la fuga da un'Europa che aveva sterminato o non aveva difeso la componente più vitale della propria civiltà; la resistenza palestinese non è la riedizione della guerra scatenata millequattrocento anni fa da Maometto, ma una lotta per la sopravvivenza di un popolo di cui si è negata l'esistenza per lavare, a spese degli arabi, colpe europee. E la presenza del Vaticano in Italia non è un castigo per il supplizio inflitto a Cristo dai romani, ma un accidente della storia umana, come l'Himalaya è un accidente della tettonica terrestre. La storia non è che quell ' immenso cumulo dei detriti contemplato dall'angelo di Benjamin; e l'unica parte con cui identificarci e cercare di riscattare è quella dei vinti, a qualsiasi popolo appartengano. Tra le guerre e le opzioni morali o le appartenenze etniche, religiose o culturali con cui si cerca di legittimarle occorre sempre interporre il lavorìo della ragione: il dialogo e la mediazione tra posizioni contrapposte. Una raccomandazione d'obbligo, in particolare, di fronte a un fenomeno apparentemente nuovo (in realtà assai antico: prima ancora degli aviatori giapponesi che hanno dato il nome al ruolo, annovera, tra gli altri, il nostro Pietro Micca, cui sono dedicati vie e monumenti) come i «kamikaze»: combattenti che si suicidano per sterminare il maggior numero di «nemici» o presunti tali: oggi per lo più - perché è più facile, o più efficace nel seminare terrore - tra la popolazione civile. Da un punto di vista morale il kamikaze e chi lo recluta non sono né più né meno odiosi del pilota che sgancia una bomba atomica, o una bomba a frammentazione, o una bomba intelligente (il più infame degli ossimori) sulla popolazione civile; o di chi le produce, progetta, «legittima» o ci fa su dei profitti.
Certo: la scelta del primo richiede un contatto diretto con le proprie vittime, la possibilità di incrociarne lo sguardo, e lascia dietro di sé un panorama di membra disperse, pozze di sangue e corpi straziati che il kamikaze non vede - ma certamente immagina - perché scompare con la loro comparsa. Mentre gli «operai» della bomba atomica e delle altre armi di sterminio a molti di noi fanno meno orrore perché il contatto diretto con le vittime non c'è. Si uccide a distanza: non solo quella dei chilometri che separano il velivolo o la base di lancio dal bersaglio, ma anche quella interposta dalla divisione del lavoro tra chi progetta o specula sulle bombe e chi fa il lavoro sporco di lanciarle. Tuttavia dal punto di vista militare le posizioni di chi utilizza kamikaze e di chi sgancia bombe si sono avvicinate parecchio: con il kamikaze ha fatto la sua comparsa una nuova arma, contro cui gli strumenti tradizionali della polizia e della guerra sono tanto più inefficaci quanto più sono potenti. Non si tratta infatti di gesti isolati, ma di veri e propri arsenali comparsi sì in Palestina, ma ormai diffusi a livello mondiale: migliaia di adepti che le avventure belliche di Bush e Putin e le rappresaglie di Tsahal non fanno che moltiplicare.

Ci manca in realtà un approccio meno superficiale alle «ragioni» dei contendenti: non riusciamo a capire - a fare nostre, a comprendere: che non vuol certo dire approvare - i pensieri, le pulsioni o i ricatti che spingono un uomo o una donna nel pieno della loro esistenza - ancorché, ma non sempre, misera - a sacrificare se stessi per seminare morte e sterminio a caso; e per questo non abbiamo strumenti per combattere queste armi sul loro terreno. Aveva ragione Ida Dominjanni (il manifesto, 20.01.04) che vedeva nell'attenzione per le biografie individuali dei «martiri» l'unica strada percorribile (ed è questo, tra l'altro, ciò che aveva probabilmente spinto Enzo Baldoni in Iraq).

Ma quell'attenzione, per suonare autentica, dovrebbe essere estesa alle biografie di tutta la popolazione che costituisce il milieu dove una scelta del genere è ormai diventata normalità (compresa la componente di coercizione, plagio e infamia presente nel mandare al «martirio» in «conto terzi» bambini, «donne compromesse» e disabili mentali). Un'attenzione per i recessi dell'anima per esplorare i quali la cultura ebraica è forse attrezzata più di ogni altra, ma di cui la politica dello stato di Israele rappresenta invece la negazione più radicale.
Viceversa, capiamo fin troppo bene (perché, in fondo, le condividiamo) le ragioni che spingono uomini e donne con la nostra stessa cultura a costruire, usare o minacciare di usare armi nucleari, bombardamenti tutto fuorché «intelligenti», o forme vecchie e nuove di apartheid. E' la «banalità del male» - cioè la de-responsabilizzazione morale sul lavoro, nel consumo, in famiglia - che abbiamo interiorizzata e fatta nostra in tutti i momenti della vita quotidiana. Conviviamo serenamente con istituzioni come Los Alamos (bomba atomica) o Fort Bragg (terrorismo di stato) e le loro infinite repliche nel pianeta; che sono anch'esse «madrasse» dove si fabbrica buona parte dell'orrore in cui siamo immersi; e di cui la prigione di Abu Ghraib (non a caso condivisa, nei locali e nei metodi, dagli opposti contendenti) è una non casuale manifestazione.
Se tutte le volte che sentiamo giustificare il possesso di armi di sterminio - quale che sia il governo che le detiene: non solo Iran o Corea del Nord; ma anche Stati Uniti, Francia, Cina, Israele, ecc - o la segregazione di un popolo; o il suo silenzioso sterminio; o la cacciata e l'affondamento di profughi ammassati su una «carretta del mare», ci indignassimo, anche e soprattutto contro noi stessi, con altrettanto vigore di quello che proviamo di fronte ai kamikaze e ai loro mandanti, forse non saremmo arrivati a questo punto. Ma possiamo sempre provarci. 

 

                

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