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CAMP DAVID

 

 

Quella su Camp David è un'altra delle favole che girano. Secondo la versione ufficiale i palestinesi avrebbero rifiutato la pace e le generose offerte degli israeliani. Niente di più falso, come potrete leggere sotto .

Poterete leggere anche la testimonianza di Robert Malley, assistente di Clinton, americano, presente

al vertice, che dà una lettura molto diversa di come si svolsero i fatti.

Abbiate la pazienza di andare in fondo, perchè avrete il classico esempio di mistificazione della realtà.

Il potere distorce la verità, presentando i fatti nella versione più funzionale a suoi interessi.

Ancora una volta dall'Italia possiamo attingere esempi notevolissimi di quello che dico.

In dieci anni di bombardamento berlusconide,  tangentopoli, all'inizio salutata dalla gente come una boccata di ossigeno, in un paese dove erano corrotti anche i divani, diventa un tentativo di golpe: il pericolo sono i magistrati, non i ladri!

Altro esempio: Andreotti.

La corte di Palermo, nella sentenza del processo d'appello che vede il senatore imputato per associazione mafiosa, afferma che il senatore-imputato  ha mentito, che i rapporti con la mafia risultano provati,ma che,datandoli fino all'1980,sono per questo prescritti.

In un altro paese il senatore sarebbe stato messo alla gogna. In Italia grazie al potere mediatico di zù Silvio è finita che il senatore era una mammoletta, mentre i giudici avevano intentato quel processo non perchè c'era notizia di reato sostenuta da prove certe, ma per odio politico!

Ultimo l'ineffabile presidente del Senato Pera che dichiara che Craxi è patrimonio dell'Italia e che rappresenta tutti noi.

Me certamente no! La storia dice che Craxi è morto latitante all'estero dopo aver subito svariate condanne, ritenute meritate perfino da una corte europea.

Cosa dire poi del fatto che all'epoca di tangentopoli, Pera era uno degli accusatori implacabile, forcaiolo fino al punto di sostenere che, data la situazione, andavano sospese  le garanzie per permettere di spazzare via un ceto politico marcio.

Niente di nuovo sotto il sole, per carità, ma sappiano costoro che c'è chi ancora ragiona e non è disposto a farsi prendere per il culo!!!

giuseppe galluccio

CAMP DAVID  di Alain GRESH
 

Quando, fra qualche decennio, gli storici si occuperanno del  conflitto israelo-palestinese degli anni '90, sicuramente si troveranno d'accordo su un punto: il vertice di Camp David, quel  conclave di due settimane (11-25 luglio 2000) che ha riunito il  presidente americano William Clinton, il primo ministro israeliano  Ehud Barak e il presidente dell'Autorità palestinese Yasser Arafat,  ha segnato la tappa iniziale della lunga discesa agli inferi che vive  il Medioriente. Decifrando i resoconti di quell'incontro trasmessi  dai media internazionali, gli stessi cronisti sicuramente metteranno in guardia i loro studenti: se fosse scritta solo in base agli  articoli della stampa, la storia avrebbe ben pochi punti di contatto  con la realtà.
Dico questo perché, nel corso dei mesi, si è propagata e ha prevalso  una versione del vertice di Camp David che si sintetizza in una  frase: Yasser Arafat ha respinto le «generose offerte» di Barak, ha rifiutato la creazione di uno stato palestinese sul 95%, forse anche sul 97% della Cisgiordania - e su tutta la striscia di Gaza - con  Gerusalemme est come capitale. La sua ostinata pretesa del diritto al  ritorno di milioni di rifugiati palestinesi in Israele avrebbe fatto  abortire la nascita di una pace storica tra israeliani e palestinesi.
Uno dei grandi meriti dell'ultimo libro di Charles Enderlin, Le rêve brisé (1), è quello di fornire una sferzante smentita a questa tesi.
Corrispondente di France 2 a Gerusalemme da oltre vent'anni, man mano  che procedevano le trattative di pace l'autore ha filmato i principali protagonisti, con l'impegno di non utilizzare le loro  testimonianze prima della fine del 2001. Enderlin ha avuto accesso a numerosi loro appunti personali, che è riuscito a situare nel contesto, grazie alla sua straordinaria conoscenza della storia e del campo.
Il risultato, suffragato da altre testimonianze (2), presenta sotto una nuova luce il fallimento del processo di Oslo.
«Non abbiamo più margini di manovra. La società palestinese ha perso  ogni speranza nella pace. In questi ultimi anni è stata letteralmente soffocata e umiliata»: sono le parole con cui Saeb Erekat, uno dei principali negoziatori palestinesi, tenta di mettere in guardia i nuovi interlocutori israeliani. Ci troviamo alla fine del maggio 1999: dopo tre anni di potere, Benjamin Netanyahu ha ceduto il passo a  Ehud Barak e al Partito laburista. È vero, i palestinesi hanno potuto eleggere una loro Autorità, e l'esercito israeliano ha evacuato le grandi città della Cisgiordania - con l'importante eccezione di Hebron. Ma la vita quotidiana continua a degradarsi: gli spostamenti all'interno dei territori occupati diventano ogni giorno più difficili - con il moltiplicarsi di check points e di controlli umilianti - ancor più che prima della firma degli accordi di Oslo nel 1993. Il livello di vita è in caduta libera, mentre la politica degli insediamenti procede inesorabile: ogni giorno vengono confiscate nuove terre arabe. Centinaia di prigionieri palestinesi, incarcerati prima del 1993, rimangono dietro le sbarre. Il maggio 1999 doveva segnare la fine del periodo transitorio di autonomia, doveva vedere la creazione di uno stato palestinese, ma il calendario non è stato rispettato, e non è stato affrontato nessuno dei grandi capitoli ancora in sospeso - frontiere, lo status di Gerusalemme, le colonie, i rifugiati, la sicurezza, le risorse idriche.
In questo contesto, la vittoria di Ehud Barak è accolta con soddisfazione dai leader palestinesi, anche se il personaggio, neofita della politica, desta comunque qualche apprensione. Il  «soldato più decorato della storia di Israele», allora capo di stato maggiore, si era opposto agli accordi di Oslo (settembre 1993); divenuto ministro degli interni, aveva votato contro gli accordi di Oslo II (settembre 1995), che prevedevano il ritiro dell'esercito israeliano dalle grandi città palestinesi. Salito al potere, secondo la formula di Charles Enderlin, riuscirà nel giro di pochi mesi a «costruire la sfiducia» con i palestinesi.
Con il pretesto di intavolare immediatamente le trattative sullo status definitivo della Cisgiordania e di Gaza, Barak è restio a mettere in pratica gli impegni del suo predecessore, e a cedere i nuovi territori all'Autorità palestinese; si deciderà a farlo solo in maniera tardiva e molto limitata. Rinnegherà anche le sue promesse di evacuare i villaggi alla periferia di Gerusalemme - Abu Dis, Azaryeh a Sawaharah - , nonostante il voto favorevole sia del governo che del parlamento israeliano.Barak manifesta anche una propensione alla politica delle colonie che non ha nulla di tattico. Uno dei suoi primi gesti, dopo le elezioni vittoriose, è stata la visita ai coloni estremisti di Ofra e di Beit-El, che chiama «fratelli carissimi (3)». Il 31 marzo 2000 invia un messaggio ai coloni di Hebron - fanatici insediatisi nel cuore stesso della città araba di cui terrorizzano la popolazione, e afferma «il diritto degli ebrei a vivere in sicurezza, al riparo da qualsiasi attacco nella città dei Patriarchi». Il ritmo di costruzione delle case nelle colonie, durante il suo governo, sarà ancora più rapido che durante il governo della destra.
Cosa ancora più grave: Barak ritarda per mesi e mesi la discussione della questione palestinese, privilegiando la trattativa con la Siria.
Tempo dopo ha cercato di giustificarsi: «Sono sempre stato un fautore del "prima la Siria"(...) Firmare la pace con la Siria avrebbe limitato decisamente la capacità dei palestinesi di allargare il conflitto, quando invece risolvere il problema palestinese non diminuirà affatto la capacità della Siria di minacciare l'esistenza di Israele (4)».
Non dà ascolto a Oded Eran, capo delegazione delle trattative con i palestinesi: «Gli ho detto che al centro del conflitto israelo-arabo c'era la questione palestinese. (...) Se non veniva risolto quello, non si sarebbe riusciti a trovare una soluzione al conflitto e a firmare un accordo con la Siria».
Ma, una volta di più, il primo ministro non dà ascolto a nessuno.Una volta di più fallirà - e il libro di Charles Enderlin ci fornisce alcune rivelazioni sulla sua responsabilità personale in questo
fiasco.
Denis Ross, il negoziatore speciale americano per il Medioriente, poco sospetto di simpatie filo-arabe, spiegherà: «I siriani facevano progressi su tutti i temi in discussione, e Barak non si muoveva di un millimetro».

Criminale di pace.

Quando riprendono le conversazioni con i palestinesi, nella primavera 2000, il capo del governo ha già perso quasi un anno, la sua maggioranza si è sfaldata, la diffidenza dell'Anp e del popolo palestinese si è rafforzata. A quel punto, decide di forzare la mano al destino, di imporre un vertice per risolvere in un colpo solo tutti i problemi ancora in sospeso.
Un'offerta sincera? Un bluff? La volontà di intrappolare l'Anp e di renderla responsabile di un fallimento? La leadership palestinese è più che riluttante: spiega che bisogna preparare il terreno affinché un incontro tra Barak e Arafat sia veramente fruttuoso, e che un vertice improvvisato rischia di portare a un disastro. Niente da fare.
Barak ha convinto Clinton, il cui secondo mandato presidenziale è ormai prossimo alla scadenza, a concludere la sua carriera con una iniziativa clamorosa. I due uomini si sono incontrati per la prima volta il 15 luglio 1999 - e secondo Charles Enderlin fu amore a prima vista. Il presidente americano scopre di provare «grande ammirazione per questo generale». Dirà anche: «Mi sento come un bambino che ha appena ricevuto un nuovo giocattolo». Questa connivenza peserà molto sul vertice di Camp David. Malgrado i suoi sforzi, il presidente americano si sentirà sempre più vicino al primo ministro israeliano che ad Arafat. Gli viene istintivo comprendere il punto di vista israeliano, accettarlo, farsene egli stesso portavoce.
Un lungo capitolo del libro di Charles Enderlin è dedicato all'incontro di Camp David. Si vive insieme ai partecipanti. Si possono seguire le discussioni all'interno di ognuna delle tre delegazioni. Ma è stato veramente un vertice? Barak rifiuta di trattare direttamente con Arafat, non lo vedrà mai faccia a faccia.
Due anni dopo, tenta di giustificare questo atteggiamento inconcepibile: «Forse che Nixon ha incontrato Ho Chi Minh o Giap (prima di firmare l'accordo di pace sul Vietnam)? Forse che de Gaulle ha mai parlato a Ben Bella?» (5) Ma né Nixon né de Gaulle avevano preteso un incontro al vertice con i loro avversari. Il disprezzo così ostentato nei confronti di Arafat alimenterà i sospetti dei palestinesi.
Al di là delle peripezie di quindici giorni vissuti a porte chiuse, molto istruttivi, il resoconto di Charles Enderlin conferma che «in nessun momento Arafat si è visto proporre lo Stato palestinese su oltre il 91% della Cisgiordania, e questo senza che mai gli sia stata riconosciuta piena sovranità sui quartieri arabi di Gerusalemme e su Haram al-Sharif/il monte del Tempio». E, prosegue il giornalista, «a differenza di quanto affermano certe organizzazioni ebraiche, i negoziatori palestinesi non hanno mai preteso il ritorno in Israele di tre milioni di rifugiati. Le cifre discusse durante i colloqui variavano da qualche centinaia a qualche migliaia di palestinesi, autorizzati a tornare con l'autorizzazione di Israele».
Il presidente dell'Autorità palestinese ha già spiegato al presidente americano, il 15 giugno 2000 a Washington: «Certo, esiste la risoluzione 194 (dell'11 dicembre 1948, sul diritto dei rifugiati a
tornare nelle loro case), ma noi dobbiamo trovare il punto di equilibrio tra le preoccupazioni demografiche degli israeliani e le nostre preoccupazioni».
Il problema dei rifugiati, confermano Robert Malley e Hussein Agha, «è stato discusso appena dalle due parti (6)» durante il vertice.
Alla conferenza stampa svoltasi alla conclusione del vertice, Barak attribuirà il fallimento alle divergenze sullo status di Gerusalemme, prima di cambiare la sua versione dei fatti e porre l'accento sul problema dei rifugiati.
Camp David, quindi, si è concluso senza un accordo. Ma non era la fine del mondo. Erano stati comunque fatti dei passi avanti, erano stati infranti dei tabù - sullo status di Gerusalemme, da parte degli israeliani che per la prima volta prevedevano una qualche forma di divisione; da parte dei palestinesi, che ammettevano che certi territori della Cisgiordania o di Gerusalemme est, con una forte presenza di coloni, avrebbero potuto essere annessi da Israele.
Ma, invece di lavorare con spirito costruttivo sui risultati acquisiti, il primo ministro israeliano scarica sul presidente palestinese la responsabilità dell'insuccesso, e soprattutto comincia a far suo il vecchio slogan della destra: non c'è un interlocutore, nel campo palestinese. Rilanciata alla grande dalla stampa e dai media, questa tesi si rafforzerà fino a dettar legge. E Barak a quel punto si dedicherà tutto a un unico compito, rivelare «il vero volto» di Arafat. Non tratta più per avere successo, ma piuttosto per dimostrare che il successo è impossibile.
Naturalmente, le trattative sono continuate, soprattutto durante l'incontro di Taba, in Egitto, nel gennaio 2001. Hanno permesso di riavvicinare le posizioni sulla maggior parte dei problemi in
discussione, sia territoriali che relativi alla divisione di sovranità a Gerusalemme est - secondo il principio che i quartieri arabi saranno integrati nello stato palestinese, i quartieri ebraici
saranno annessi da Israele.
Anche sulla questione dei rifugiati, i delegati israeliani avevano presentato proposte innovatrici (7). Ma rappresentavano veramente le posizioni di Barak? Il fatto è che Barak non le ha mai avallate.
D'altronde, Menahem Klein, consigliere dell'ex ministro israeliano degli affari esteri Shlomo Ben Ami, ha ammesso di recente che Barak gli aveva detto di avere inviato una delegazione a Taba «esclusivamente per rivelare il vero volto di Arafat, e non per concludere un accordo (8)». In realtà, il capo del governo israeliano riuscirà a convincere la sua opinione pubblica che ormai si tratta di «o noi o loro». Così facendo, infliggerà un colpo mortale al campo della pace - Uri Avnery, vecchio militante pacifista israeliano, definirà con ragione Barak «un criminale di pace».
Charles Enderlin si guarda bene dall'esonerare i leader palestinesi da ogni responsabilità. Arafat è spesso incapace di assumere decisioni e di tagliare i nodi. Sottovaluta completamente i rischi di una vittoria della destra alle elezioni del febbraio 2001 e accorda un credito ingiustificato alla nuova amministrazione americana.
Soprattutto, si rivela incapace di comprendere i movimenti profondi dell'opinione pubblica israeliana e di formulare un programma chiaro, in particolare dopo lo scoppio della seconda Intifada.
Charles Enderlin smentisce categoricamente l'idea secondo cui sarebbe stata la leadership palestinese a pianificare la rivolta, valutazione condivisa dal collega Georges Malbrunot, nel suo libro documentatissimo sull'Intifada Des pierres aux fusils (9).
Quest'ultimo cita Saeb Erekat che, rivolgendosi ai responsabili dei servizi di sicurezza - alcune settimane prima dello scoppio dell'Intifada - dichiara a Gerico: «Camp David è fallito, ma è necessario salvare i risultati acquisiti. I negoziati continuano, e vi sono reali probabilità di successo (...) Nelle settimane a venire, dovete prevenire gli attriti che potrebbero portare a uno scontro  violento».
È già troppo tardi. L'Autorità deve far fronte alla rivolta del popolo palestinese, che vuole la fine immediata dell'occupazione. È opportuno ricordare che ci vorranno ancora molte settimane prima che  l'Intifada si militarizzi, in risposta alla repressione dell'esercito di cui Georges Malbrunot ci ricorda alcune cifre: «204 palestinesi sono stati uccisi dai soldati israeliani tra il 28 settembre e il 2 dicembre, fra cui 73 ragazzi sotto i 17 anni e 24 membri del servizio di sicurezza.
Non potevamo perdere dieci ragazzi al giorno, il costo umano era troppo elevato. Bisognava passare ad un'altra strategia», sottolineano all'unisono i responsabili palestinesi.
Il trattato di Oslo è ormai morto e sepolto. Si discuterà ancora a lungo sulle cause di questo decesso, sulle responsabilità personali degli uni e degli altri. Ma la pace è fallita soprattutto perché la potenza occupante, Israele - sia il governo che una parte importante d ell'opinione pubblica - è stata incapace di riconoscere l'Altro, il palestinese, come suo pari. I diritti dei palestinesi alla dignità, alla libertà, alla sicurezza, all'indipendenza, sono sempre stati subordinati ai diritti degli israeliani. Per andare avanti, un giorno dovrà pur finire questa visione colonialista, di cui Barak è diventato ormai il portavoce.
In un recente colloquio, in cui sostiene la strategia del terrore di Sharon, e in particolare l'operazione Muraglia di difesa dell'aprile scorso - anzi l'avrebbe voluta «più energica, più rapida e lanciata contemporaneamente contro tutte le grandi città» - Barak svela il suo «vero volto». Parla degli arabi: «Sono il prodotto di una cultura in cui dire una menzogna non pone alcun problema (creates no dissonance).
Non soffrono a mentire, come avviene nella cultura giudaico-cristiana.
La verità per loro è una categoria irrilevante». Questa visione essenzialista, che pone sotto accusa un'intera cultura, ricorda l'ossessione razzista che propagandavano le autorità francesi in Algeria e di cui si faceva cantore Camille Brunel, autore colonialista degli inizi del XX secolo: «Un ufficiale francese aveva lasciata salva la vita a un ribelle arabo che, peraltro, aveva meritato cento volte la morte. E l'altro gli fece questo discorso: sono tuo debitore; come ringraziamento, ti do questo consiglio, che non dovrai mai dimenticare, perché ti sarà sempre utile fra la mia gente: "Non fidarti mai di un arabo, neppure di me" (10)».


di Alain Gresh

note:


(1) Charles Enderlin, Le rêve brisé. Histoire de l'échec du processus
de paix du Proche-Orient. 1995-2002, Fayard, Parigi 2002, 366 pagine.
Salvo diversa indicazione, le citazioni sono tratte da tale libro.

(2) Si legga in particolare, Robert Malley e Hussein Agha, New York
Review of Books, 9 agosto 2001. Uno dei primi resoconto che
contestano la visione dominante di Camp David era stato scritto da
Amnon Kapeliouk: «Parto difficile per l'indipendenza palestinese». Le
Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2000. Si legga anche «Camp
David, le ragioni di un fallimento», Le Monde diplomatique/il
manifesto, febbraio 2002.
(3) Citato da Michel Warschawski, Sur la frontière, Stock, Parigi
2002, p. 230.
(4) New York Review of Books, 13 giugno 2002.
(5) Ibidem.
(6) Ibidem, risposta di Robert Malley, che ha partecipato al vertice
come consigliere del presidente Clinton.
(7) Per le trattative di Taba, si legga Le Monde diplomatique/il
manifesto, settembre 2001.
(8) Haaretz, 2 maggio 2002.
(9) Georges Malbrunot, Des pierres aux fusils. Les secrets de
l'Intifada, Flammarion, Parigi, 2002.
(10) Citato da Alain Ruscio, Le Credo de l'homme blanc, Complee,
Bruxelles, p. 63

 

                

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