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La parità nel gioco democratico

 

Il Prof. Giovanni Sartori ha scritto un fondo sul Corriere del 27 settembre 1999 che, con chiarezza e precisione, illustra il punto di vista liberale sull'importanza decisiva di pari condizioni tra chi partecipa al gioco democratico.

tratto da : http://www.liberali.it/pagine2/nuovi/pensiero/sartori_spot.htm

 

 QUEL PASTICCIACCIO DELLA PAR CONDICIO

di GIOVANNI SARTORI

 «Par condicio» vuol dire che in qualsiasi gioco o contesa i contendenti devono essere in pari condizioni. Se no quel gioco non può essere giocato, visto che è già vinto o perduto in partenza. Un duello non può essere tra chi ha pistola e chi spada; una corsa non può essere tra un appiedato e un motorizzato; e in una partita a scacchi un giocatore non può avere due regine. Invece nella politica italiana esiste un protagonista che gioca con due regine.

Il problema delle pari condizioni viene spesso confinato agli spot. Ma a torto. Il problema si pone in tre contesti. Il primo è sì quello degli spot televisivi; ma il secondo è il contesto del conflitto di interessi; e il terzo investe il problema dell'incompatibilità. Sembrano discorsi diversi; e difatti lo sono. Ma si rifanno a un comune filo conduttore: al problema posto da un ingiusto vantaggio, da una concorrenza sleale, e quindi di una disparità che viola le regole del gioco democratico.

Comincio dagli spot. Non perché questo sia il problema più importante, ma perché è già in accesa discussione al Senato. La controversia sugli spot è ingigantita da una confusione tra pubblicità (in inglese, e più chiaramente detto, commercial) e propaganda politica. Ora - sia chiaro - nessuno si sogna di vietare la propaganda politica. Il divieto di spot vieta solo i commercials. E siccome questo divieto esiste in toto non solo in Spagna ma anche in Inghilterra, Germania e altri Paesi europei di indubbia fede democratica, è davvero difficile sostenere che il circoscritto divieto proposto dal governo D'Alema sia «liberticida». Aggiungi che in Italia il divieto di spot ha questa ragion d'essere in più: che a Berlusconi la sua pubblicità politica su Mediaset viene pressoché gratis, mentre gli altri partiti la debbono pagare a lui. Questa è una disparità di condizioni che non esiste al mondo, che nessuna democrazia può accettare, e che non sarebbe in alcun modo rimediata dal consentire spot gratuiti a tutti - Forza Italia inclusa - sulla televisione pubblica.

Al che Berlusconi ribatte che lui viene svantaggiato dalla televisione di Stato e che quindi lui si limita, con le sue reti, a riequilibrare la partita. Sì e no. Anche se le misure citate da Berlusconi (i minuti di presenza in televisione) sono irrilevanti e non provano nulla, è indubbiamente vero che la televisione di Stato dà più tempo e spazio al governo che all'opposizione. Ma così avviene «naturalmente» ovunque. Un po' perché la Tv pubblica è costitutivamente tenuta a dare «visibilità istituzionale» (che è cosa diversa dal propagandare) a quel che avviene nelle istituzioni. E in parte perché quel che un governo in carica fa è oggettivamente più importante di quel che l'opposizione ne dice. Il problema italiano non è questo. Il problema è che se Berlusconi andasse al potere lui «occuperebbe» la Rai (come ha già fatto nel '94, e, beninteso fanno anche gli altri) senza per questo perdere Mediaset. E in tal caso lui controllerebbe il cento per cento. O no?

Passo al conflitto di interessi. La fattispecie è contemplata nel nostro Codice civile (articolo 2373) nel quale si prevede che l'amministratore di una società si deve astenere dal voto quando è in gioco un suo interesse personale. Il principio è dunque che un interessato, una parte in causa, non deve avere il potere di favorire se stesso. Trasferito nell'ambito pubblico il conflitto di interesse si traduce nel reato di «interesse privato in atti di ufficio»: l'avvalersi di una carica pubblica per favorire un interesse proprio.

E non c'è dubbio al mondo che Berlusconi si trovi in flagrante conflitto di interessi, vuoi che sia capo del governo oppure leader dell'opposizione. Perché il Cavaliere si avvale del possesso di un impero di strumenti di comunicazione di massa per conquistare il potere politico, e poi usa il potere politico per rafforzare il suo potere economico.

Il conflitto di interessi è così patente che nemmeno Berlusconi lo nega, tantovero che viene da lui - quando era capo del governo - la proposta di sanarlo con il cosiddetto blind trust: il conferimento «cieco» del suo patrimonio a una amministrazione fiduciaria. Ma Berlusconi accetta il blind trust perché sa che questo ritrovato è efficace per un patrimonio finanziario, ma per niente «cieco» e quindi del tutto inefficace per un patrimonio industriale come il suo. Il Cavaliere vedrà sempre benissimo, anche se nessuno gli mostra carte, qual è l'interesse di Mediaset.

Che fare? Il disegno di legge sul blind trust è stato lungamente insabbiato dalla stupidità di una sinistra che ha creduto di avere in mano uno strumento di ricatto del quale Berlusconi giustamente ride (in effetti a lui il blind trust fa da comodo alibi). E ora stupidamente sta per arrivare, dopo essere stato stupidamente approvato all'unanimità (!) dalla Camera nell'aprile 1998, all'esame del Senato. Se verrà definitivamente approvato non servirà a nulla, sarà una ennesima beffa del bravissimo Cavaliere. E quindi temo che a questo punto il problema della «par condicio» possa essere affrontato soltanto in termini di incompatibilità, e quindi di ineleggibilità (proposta Passigli del '94, riproposta nel '96, e ora in coda al Senato).

Sia chiaro: il conflitto di interessi non comporta di per sé incompatibilità. Se la comporta è solo perché altre soluzioni non funzionano. Deve anche essere chiaro che l'incompatibilità è un principio generale del diritto a sé stante. Per esempio, chi fa il giudice non può contestualmente fare l'avvocato dell'imputato sottoposto a giudizio. Le due cose sono incompatibili, si escludono per definizione. E nell'esempio dato il conflitto di interessi non c'entra.

Sull'incompatibilità è naturale che Berlusconi si infuri: è l'unico principio che veramente lo mette in difficoltà. Ma il Cavaliere sbaglia quando dichiara che quel principio è ad personam, fatto su misura per lui. In verità la ineleggibilità parlamentare per motivi di incompatibilità esiste nel nostro ordinamento da più di quaranta anni.

In particolare l'articolo 10 del Dpr 30 marzo 1957 n. 361 stabilisce la ineleggibilità di chi gode di concessioni statali. Nessuno ne gode più di Berlusconi; ma resta che nel 1957 Berlusconi non esisteva, e quindi che quella «persecuzione» non è stata inventata per lui. Peraltro il Cavaliere ha davvero ragione di protestare alla luce del fatto che quella legge è sempre restata disattesa, e cioè aggirata da una interpretazione capziosamente legalistica della giunta delle elezioni della Camera, che la fa valere soltanto nei confronti del titolare legale di una concessione e non del vero proprietario.

Sono più di quaranta anni, dunque, che il nostro Parlamento viola spudoratamente e vergognosamente il principio della incompatibilità. Se vorrà perseverare nel violarlo, allora il pasticciaccio della «par condicio» resterà insoluto e diventerà sempre più insolubile.

L'alternativa è di argomentare che tardi è sempre meglio che mai. Nel primo caso avremo una democrazia sempre più malata impiombata da una concorrenza sempre più distorta. Nel secondo caso chi crede nella democrazia competitiva può ricominciare a sperare.

                

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