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Il volto di Qana

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Il Volto di Qana I

Quello che è successo in questi giorni, fa seguito a due avvenimenti importanti.
Il primo, più noto, è l'
attacco israeliano a Gaza, su cui ritorneremo.
Il secondo, di cui probabilmente non avrete sentito parlare, è la scoperta, mezzo mese fa, in Libano, di una cellula di sicari guidati da un ex-poliziotto.

I killer erano stati assoldati da Israele, e avevano compiuto una serie di omicidi, tra cui quello del palestinese Mahmud al-Majzub, ucciso assieme a suo fratello con un'autobomba a Sidone il
26 maggio scorso, e dei dirigenti di Hezbollah, Ali Saleh e Ali Hassan Dib, e di Jihad Jibril, il figlio del fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.
Il 26 maggio, per chi non lo avesse notato, è
meno di due mesi fa.
Cioè, meno di due mesi fa, una squadra di assassini prezzolati ha piazzato una bomba in una macchina, che poi è stata fatta esplodere tramite un
comando impartito da un aereo che è passato sopra, ovviamente violando lo spazio aereo libanese.

Siamo in guerra, e non mi scandalizzo particolarmente. Mahmud al-Majzub era un
combattente, che aveva fatto la scelta di resistere all'oppressione e di non chinare la testa. E di questi tempi, chi non china la testa sa di essere condannato a morte.
Quello che invece è scandaloso è il fatto che tutti i media occidentali, in questi giorni, ci raccontino di un
attacco da parte del Hezbollah, gratuito e non provocato, contro Israele.
Come al solito, il problema non è Israele, che fa più o meno quello che farebbe qualunque stato se si potesse
permettere sempre e ovunque ciò che vuole. Anche il Paraguay bombarderebbe Buenos Aires e compirebbe rapimenti in Bolivia se potesse.
Il problema è
chi permette a Israele di fare sempre e ovunque ciò che vuole; e chi fa le fiaccolate a sostegno delle sue aggressioni.
Proprio in questi giorni, il governo libanese avrebbe dovuto presentare una protesta per quello che ha definito un "atto di aggressione"
davanti all'ONU
.
L'ambasciatore statunitense, Jeffrey Feltman, ha immediatamente minacciato un "impatto negativo" sui rapporti tra Stati Uniti e Libano in caso venisse presentata la denuncia. Poi uno si chiede perché qualcuno fa a meno dell'ONU, prende le armi e si difende da solo.

 

Prigionieri

Sia la Palestina che il Libano convivono con l'immenso dramma del carcere. Dal 1967 a oggi, è stato calcolato che 650.000 nativi palestinesi sono passati per le carceri israeliane: questo su una popolazione attuale, nei territori occupati, di circa 3,5 milioni di persone. Facendo le dovute proporzioni, è come se 11 milioni di italiani fossero stati, in qualche momento della loro vita, in prigione.
Questo vuol dire che
non esiste una sola famiglia palestinese che non abbia conosciuto il carcere.
 

Non esiste palestinese che non abbia visto picchiare il proprio padre.

Non esiste palestinese che non abbia visto degli stranieri devastargli casa.

Non esiste palestinese che non sia cresciuto negli urli di uomini con gli stivali che gli ordinavano di umiliarsi.


Non esiste palestinese che non si ricordi di aver avuto il terrore del yahûd, che non si vergogni di essersela fatta sotto dalla paura.
A me interessa poco sapere se la vita nei campi di detenzione nel deserto del Negev sia peggiore di quella, poniamo, in un carcere pakistano. Questo è un tipico
dilemma da umanitari, che lascio a quelle persone che non cercano mai le cause delle cose, ma vorrebbero solo alleviare i sintomi. E lascia aperte infinite, stupide disquisizioni, sul tipo, "in Israele ti picchiano e basta, mentre in Liberia ti tagliano il piede". Cosa che ci dovrebbe far immedesimare in chi si limita a picchiare.
Quello che è importante è cogliere i
punti fondamentali del sistema carcerario israeliano, che lo distinguono, ad esempio, da quello italiano.
Prima di tutto, vengono
punite proprio le scelte etiche: quasi tutti i palestinesi che sono andati in carcere, ci sono andati, non per aver spacciato droga, ma per aver tenuto la testa alta, quando gli si diceva, devi strisciare per terra.
Secondo, il sistema di
"detenzione amministrativa" implica che non si sa perché ci si trova in carcere, non si possiedono diritti e non si sa quando, né se, si uscirà.
Terzo, l'incarcerazione è su
basi esclusivamente ed esplicitamente razziali, come razziale è la divisione delle strade per ebrei e non ebrei, o razziale la libertà o l'impossibilità di muoversi. Se sei nato a Varese, ma sei della razza giusta, puoi girare con il Kalashnikov a Hebron. Se sei nato a Hebron, e ti trovi a Hebron, ma non sei della razza giusta, devi accettare che il primo veronese che passa ti vieti di andare a scuola, ti tiri i sassi o ti impedisca di portare tua moglie a partorire in ospedale.
Quarto, lo scopo del sistema carcerario israeliano non è di rieducare, ma di
estrarre informazioni. Non è importante la severità delle torture inflitte: il punto non è il sadismo, che esiste ovunque. E' che tutti devono essere spinti al punto di tradire i propri amici. Per ottenere un risultato di questo tipo, in una società tutta basata sui rapporti di solidarietà, di famiglia, di intensa amicizia, si deve smontare sistematicamente e distruggere ogni individuo che finisce dentro la rete.
In particolare, questo avviene dentro una
società araba. Contrariamente ai pacifisti, che tendono a smussare le differenze culturali, io ritengo che una cultura arabo-islamica esista, anche se ovviamente non nella versione caricaturale degli islamofobi. E questa cultura arabo-islamica dà un valore eccezionale alla dignità della persona, che non deve mai essere umiliata. Chi conosce il nostro meridione, ha un'idea, anche se parziale, di questo senso di rispetto e di cortesia.

Mentre l'intero sistema del dominio consiste nel ricordare ai dominati che
non devono osare fiatare, e che il dominante può entrare nelle loro case in qualunque momento, può tagliare i loro ulivi come gli gira, può ordinare loro di sdraiarsi per ore sull'asfalto, finché gli gira, può mettere le mani addosso ai bambini e alle donne.
Ecco perché la
liberazione dei prigionieri è una questione molto più grave di quello che potrebbe mai essere da noi. Forse perché agli arabi, privati di tutto il resto, è rimasta una briciola di dignità in più rispetto a noi.
Oggi ci sono circa
10.000 o 12.000 prigionieri palestinesi: le cifre variano, probabilmente secondo i momenti e le definizioni, comunque è come se ci fossero in Italia 170.000 persone in carcere solo per le loro idee o le loro azioni politiche.
Per questo, un gruppo armato palestinese ha recentemente preso prigioniero un soldato israeliano, chiedendo in cambio il rilascio delle sole
donne e minorenni nelle carceri e nei campi israeliani.
In passato, Israele ha più volte
accettato scambi di prigionieri, a differenza di altri paesi.
La cosa non è sorprendente: Moro fu sacrificato per la sacralità delle istituzioni, ma Israele è ciò che in sociologia si chiama una
Herrenvolk Democracy, cioè uno stato che non ha un particolare culto delle istituzioni astratte, ma si tiene insieme per l'enorme valore attribuito a ogni singolo membro di una certa etnia, che gode di diritti certamente notevoli. Tra cui il diritto di contare sulla protezione dello stato in ogni momento. Inoltre, esistono possibilità illimitate di procurarsi nuovi prigionieri arabi.

Negli ultimi trent'anni, Israele ha rilasciato circa 7.000 prigionieri, in cambio di
19 israeliani vivi, e dei corpi di altri otto.
Nel 2004, Israele rilasciò ben 429 prigionieri in cambio di un unico imprenditore israeliano e dei corpi di tre soldati morti: è interessante notare che tra i prigionieri rilasciati, ce n'erano alcuni che Israele aveva
catturato proprio allo scopo di scambiarli.
C'è qualcosa di grandiosamente imperiale e rassicurante in questo scambio, dove persino il
corpo morto di un uomo bianco vale decine e decine di indigeni. La tecnologia fa di questi miracoli: la proporzione di israeliani e di libanesi morti in questi giorni è, al momento, di 1 a 41. 
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Il Volto di Qana (II)

"Nel mio primo discorso in questi giorno dopo l'Operazione Promessa Veritiera, vorrei dire alcune parole - una parola al popolo libanese, una parola ai combattenti della resistenza, una parola ai sionisti e una parola ai dirigenti arabi. Non ho parole per la comunità internazionale, perché non ho mai creduto, per un solo giorno, nell'esistenza di una comunità internazionale, e questo è proprio ciò che molti nella nostra nazione sentono".

Sayyed Hassan Nasrallah, 16 luglio 2006

Nella società libanese, il dramma dei prigionieri è un argomento di immensa importanza.

Khiam,nel sud del Libano, è diventata una delle carceri più famigerate del mondo, dopo la precipitosa fuga degli aguzzini sei anni fa. Migliaia di libanesi sono stati torturati nelle sue minuscole celle, e molti sono morti. Il carcere fu gestito direttamente dagli israeliani fino al 1987, quando il controllo passò ufficialmente alle milizie cattoliche del SLA [2]. Oggi è la sede di un centro dedicato lotta contro la tortura e ai diritti umani.

Il movimento del Hezbollah è nato in questo durissimo contesto di resistenza contro uno degli eserciti più potenti del mondo.

So che nessuno darà mai una definizione credibile della parola "terrorismo": se indica l'uccisione di civili per convincere i governi a cambiare politica, è esattamente ciò che sta facendo Israele adesso, bombardando indiscriminatamente il Libano. Se invece indica semplicemente un movimento non riconosciuto come stato, dovremmo condannare la resistenza su cui si fonda ufficialmente l'Italia.

Fa comunque impressione vedere i media che definiscono tranquillamente Hezbollah come "movimento terrorista".

Hezbollah è infatti una costellazione di organizzazioni, sorte nel mondo emarginato della Shi'ah libanese - circa il 45% della popolazione - che ha sempre saputo agire con lucidità e senza perdere la testa. Nei lunghi anni di lotta contro l'occupazione ha sempre colpito bersagli militari, responsabili di un'invasione illegale da qualunque punto di vista.

Ricordiamo, tra l'altro, che il pretesto per l'invasione del Libano nel 1982 fu un attentato (non mortale) contro l'ambasciatore israeliano a Londra da parte di una piccola fazione palestinese, in rotta con tutte le altre.

Esattamente come il pretesto per la Kristallnacht, il primo grande pogrom di ebrei nella Germania nazista, fu l'omicidio di Ernst vom Rath, un dipendente dell'ambasciata tedesca a Parigi, da parte di un giovane ebreo. Visto che i morti durante l'invasione israeliana del Libano furono circa 20.000, mentre quelli della Kristallnacht furono un centinaio, almeno in questo caso è meglio non fare paralleli tra sionisti e nazisti.

Hezbollah è l'unica forza nel Vicino Oriente che possa dire di avere sconfitto Israele militarmente. Allo stesso tempo, ha saputo organizzare la vita quotidiana della comunità e ha avuto l'intelligenza di rinunciare a ogni progetto di creazione di uno stato islamico in un paese multiconfessionale. Ho conosciuto tanti libanesi, laici, di sinistra e anche cristiani, che si sono avvicinati a Hezbollah in questi anni, attratti dalla disponibilità e dal pragmatismo di questo movimento.

Durante lo scambio di prigioneri del 2004, l'ispiratore di Hezbollah [3], Sayyed Hassan Nasrallah dichiarò che era rimasta in sospeso la questione di tre detenuti che Israele si rifiutava di rilasciare (uno si trova in carcere da 27 anni), e della sorte di alcuni altri su cui Israele si rifiutava di dare informazioni. Tutte cose che, secondo i libanesi, facevano parte dell'accordo iniziale. Anche se tre prigionieri possono sembrare pochi, sono esattamente lo stesso numero di prigionieri per cui Israele fa quel che fa, in Libano e a Gaza.

Non a caso, la cattura dei prigionieri israeliani da parte dei combattenti di Hezbollah la settimana scorsa porta il nome di "Operazione Promessa Veritiera", perché compie la promessa del 2004. Ed è stata intrapresa solo dopo il fallimento di negoziati segreti.

Quale fosse lo scopo di questa operazione, progettata per cinque lunghi mesi, lo ha spiegato chiaramente lo stesso Nasrallah: "Ciò che abbiamo fatto è l'unico modo fattibile per liberare i detenuti nelle carceri israeliane".

Ora, un giornalista in buona fede dirà che Hezbollah ha sequestrato due soldati israeliani per ottenere la liberazione di tre libanesi detenuti nelle carceri israeliane, a un mese e mezzo di distanza da un attentato israeliano su suolo libanese. Esattamente come scriverà che gli israeliani hanno attaccato il Libano per ottenere la liberazione dei loro soldati.
Poi potrà dire tutto il bene o il male che vuole di una simile impresa.
Un giornalista in mala fede nasconderà deliberatamente il motivo per cui Hezbollah ha sequestrato i soldati israeliani.
A questo punto, la premessa per ogni giudizio diventa un "gratuito attacco non provocato". A quel punto, il lettore è costretto mentalmente a discutere solo di quanti libanesi devono essere "puniti": tutti, diranno quelli di destra; solo quelli di Hezbollah, diranno quelli di sinistra.
E' questo genere di manipolazione e di falsificazione delle basi stesse del discorso che rende terribilmente difficile discutere dei conflitti del Vicino Oriente.
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Il Volto di Qana III

wa al-fajri

E' un'ora silenziosa, che conosciamo in pochi.
Piccoli soffi di brezza, un pino altissimo che inizia a prendere forma, in attesa del fischio dei rondoni.
O saranno già volati via? L'ultima volta, erano già molto in alto.
Verrà poi il grande cerchio arancione del sole, e camminerò nell'erba dalle ombre lunghe, a chiedermi se quella strana farfalla sia grigia, azzurra o verde, se la sua dimora sia qui o ai piedi dell'Elbrus.
Il sole corre veloce. Se passeggi a quest'ora lungo le coste di Tiro, puoi già vedere il mare color del vino che ne prende i primi riflessi.

A Tiro in questo momento c'è un ragazzo un po' buffo, che ama anche lui quest'ora ambigua. Respira a pieni polmoni l'aria di sale e alghe, si riempie gli occhi di gabbiani e nel lieve vento, ascolta l'adhan:

Allahu akbar
ashhadu an lâ ilâha illa Allâh
ashhadu anna Muhammadan rasûl Allâh

Respira a fondo l'alba, perché lui non lo sa, ma entro stanotte sarà morto ammazzato.

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Il Volto di Qana (IV)

Interessante discussione ieri con un amico, cattolico,
grande conoscitore del Libano e del mondo maronita in particolare.
Quello che segue è l'esposizione, il più possibile fedele, del suo punto di vista, non del mio.
Il Libano vive da decenni tra l'incudine della Siria e il martello d'Israele.
Oggi è rimasto solo il martello, visto che gli Stati Uniti hanno organizzato in Libano quella che doveva essere la prima
"democrazia esportata" del Medio Oriente.
E' successo così lo stesso fenomeno che abbiamo visto con la caduta del fascismo in Italia o quella dei regimi socialisti dell'Est: la
casta di mafiosi che prima governava per conto della Siria, è passata in blocco nel campo statunitense, grazie anche a mediazioni e interferenze saudite, e sfruttando il sistema elettorale creato dai siriani nel 2000, che attraverso vari trucchi, assicura una rappresentanza del tutto sproporzionata ai vecchi notabili.
Allo stesso tempo, il sistema politico libanese prevede una divisione di
tutti gli incarichi su basi religiose, mentre non permette di censire le dimensioni di tali gruppi.
I rapporti tra i gruppi, ciascuno sotto la guida di un feudatario, diventano così decisivi, ma sono fossilizzati nella situazione in cui si trovavano oltre mezzo secolo fa.
Il Libano uscito dalla cosiddetta rivoluzione del 14 marzo doveva essere, quindi, uno stato diviso su basi settarie, filoamericano e aperto alle interferenze israeliane, governato dai notabili di sempre, di varia estrazione religiosa.
Questo progetto è fallito a causa di
Hezbollah e del Generale Michel Aoun.
Hezbollah lo conosciamo - è di gran lunga la prima forza del Libano, e rappresenta forse la metà della popolazione del Libano. Ha mantenuto rapporti discreti, ma non di sudditanza, con la Siria e soprattutto con l'Iran, come avrete sicuramente sentito dire un centinaio di volte dai media in questi giorni.
Invece, il
Generale Aoun è l'unico uomo politico libanese che abbia combattuto con le armi contro l'occupazione siriana, e per questo ha passato gli ultimi quindici anni in esilio.
"Il Generale" è di famiglia maronita (cattolica), ma è nato in un quartiere povero e di religione mista.
Questo lo ha indotto a combattere da sempre
contro la divisione settaria del paese. Diventato comandante dell'esercito libanese, ha creato i primi reparti interconfessionali.
Nel 1988, venne nominato primo ministro e nel 1989 cercò di espellere l'esercito siriano dal paese. La confusa situazione che ne seguì, con bombardamenti, cambi di incarichi e trattati, si concluse nel 1990 con un
accordo tra Stati Uniti e Siria: la Siria avrebbe appoggiato l'attacco statunitense contro l'Iraq, e gli Stati Uniti avrebbero dato mano libera alla Siria in Libano.
L'esercito siriano,
assieme a gruppi cristiani, lanciò un grande attacco militare, e Michel Aoun fu costretto ad andare in esilio.
Ritornato in Libano nel 2005, Aoun lanciò un
movimento interconfessionale, che entrò subito in rotta con il governo filo-statunitense e i suoi progetti di privatizzazione e svendita delle risorse nazionali.
Nelle elezioni, il movimento di Aoun ebbe un notevole successo in termini di voti, conquistando le zone cristiane dell'interno, ma ebbe un numero basso di seggi a causa della legge elettorale.
Il 6 febbraio 2006, Aoun strinse un
importante accordo con Hezbollah, con cui Hezbollah - che aveva già rinunciato ufficialmente all'idea di instaurare uno stato islamico in Libano - aderì sostanzialmente al progetto di Aoun per un Libano giuridicamente laico.

I motivi sono probabilmente molti: la laicità conviene storicamente alle minoranze discriminate, come gli sciiti libanesi (che poi oggi non sono più minoranza, ma sono certamente discriminati); e poi non ci vuole molto per capire che la frammentazione etnoreligiosa del Libano è ciò che ha permesso anni di manipolazione straniera nel paese. Chiaramente, poi, la laicità, in un paese mediorientale, non implica alcun "laicismo" antireligioso.
In queste ore, mentre
700.000 libanesi fuggono dalle loro case, la divisione è diventata molto netta.
Da una parte, un governo privo di autorità, che può contare solo su alcuni giri clientelari, ovviamente vorrebbe che l'opposizione non esistesse, ma non può intervenire contro la maggioranza del proprio paese.
Dall'altra, il patto tra "Il Generale" e Hezbollah. Che, nella pratica, è un'inedita
alleanza tra laici, cristiani e sciiti, in nome dell'indipendenza nazionale.
Forse adesso si può capire perché i bombardieri israeliani hanno anche
colpito chiese cristiane, e hanno attaccato ieri il quartiere cristiano di Ashrafiyeh a Beirut; o perché ovunque nel mondo, ci siano sacerdoti cristiani tra i libanesi che manifestano contro l'invasione.
E siccome tutti fanno dietrologie sulla Siria o l'Iran senza saperne nulla, anche il mio amico si permette di lanciare lì un'ipotesi.
Cioè che Israele ha deciso di venire meno alla storica pratica di salvare la vita dei propri soldati scambiando prigioneri, per attuare la soluzione finale al problema libanese, come riferisce l'ANSA del 12 luglio:

"Il capo di stato maggiore [israeliano] ha minacciato di riportare il Libano, che si sta ancora riprendendo dalle ferite inflittegli dalla guerra civile negli anni settanta e dalla successiva invasione israeliani nei primi anni ottanta, "indietro di decine d'anni" se i due soldati non saranno subito liberati."

A me sembra che sapere tutte queste cose sarebbe utile per l'italiano medio, che deve decidere cosa pensare della guerra in corso. Magari anche ascoltando cose opposte a quelle che dice il mio amico, che so, che la politica laica proposta da Michel Aoun è sbagliata.

Invece, ieri, Repubblica regala tutta la quarta pagina a Thomas L. Friedman che spiega così le motivazioni di ciò che ha fatto Hezbollah. Anzi, "Nasrallah", perché bisogna sempre personalizzare:

"Non capisco la mentalità orientale... [per Nasrallah] non si tratta di vincere o perdere; si tratta di uccidere degli ebrei".

Ecco. Non è un blog néoconnard dall'italiano zoppicante.

Non è nemmeno l'Agente Betulla su Libero.

Questa è Repubblica, quotidiano che chiamano "di sinistra".
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dal 31/8/06: