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Guerra & Terrore

 

Vi propongo questo articolo, dal Manifesto del  21/11/2003, per la sua profondità e per il suo acume, nonché per il suo uscire dal coro.
Leggetelo attentamente.


Dov'è la guerra? Ovunque. Quando finirà? Mai. Non è uno scambio di battute preso dal teatro dell'assurdo, ma forse e purtroppo una constatazione banale. Divenuta globale forzando i confini dello spazio, la guerra del terzo millennio travolge ormai anche quelli del tempo. Le bombe, le rappresaglie, le azioni di guerra non conoscono soluzione di continuità. E' la guerra permanente che non risparmia civili, missionari di pace e missioni di guerra, talvolta distinti tra loro da un troppo labile confine. Siamo ormai tristemente abituati a percepirla come una spirale, come un micidiale rincorrersi di sanguinosi atti di terrorismo e di interventi militari, di crimini e di rappresaglie. Ma c'è qualcosa di più e di più inquietante. La
guerra permanente non è più uno strumento di risoluzione delle crisi, un sanguinoso intervallo tra condizioni di relativo equilibrio, ma un elemento stabile dell'ordinamento politico stesso, uno strumento di governo, un principio costituente. Non più sostituzione o continuazione della politica con altri mezzi, ma politica tout court, costituzione materiale dell'assetto globale. Tutto questo non era forse già implicito nel definire operazioni di polizia l'intervento degli eserciti, fuori dai propri confini, sulla scena globale? Non è forse la polizia una funzione permanente degli ordinamenti sociali, un elemento familiare, ordinario e dai più considerato indispensabile? Ma se la guerra ordinata da più o meno legittimi sovrani ha
perduto ogni carattere di eccezionalità, altrettanto accade al terrorismo, che ne sia causa, bersaglio, conseguenza o parte, o tutte queste cose insieme. La strage terroristica che nel passato aveva rappresentato un culmine, un fatto straordinario e straordinariamente percepito, un segno destinato a durare nel tempo, è diventata evento quotidiano, ripetitivo, seriale, beffardamente indifferente all'unicità delle singole vite che cancella. Il terrorismo è divenuto, in altre parole, non più boato che sovrasta e ammutolisce la voce della politica, «lo schianto redentore della dinamite», ma questa voce stessa nella sua espressione più contingente: il terrore esercita controllo sociale, crea gerarchie, ordinamenti, morale e
immaginario, condiziona i comportamenti, i sentimenti e le idee. E' la sicura promessa di oppressione contenuta in quella orrenda etica del sacrificio, della propria e dell'altrui vita, che sta nel cuore del suo linguaggio. E' propaganda politica che produce morte e morte che produce propaganda politica in una infernale coincidenza di comunicazione e azione, assai più vicina al mondo della rete e dei suoi nodi che alle antiche ordalie. E' il rovesciamento mostruoso di un possibile principio di democrazia. Non riconoscere questo spessore e questa articolazione, evocando la disperazione o il crimine, significa assistere impotenti al gioco di massacro o parteciparvi. Due estremi tra i quali costantemente oscillano gli strateghi della guerra globale.

La guerra permanente è una forma della politica che va rimodellando le nostre vite quotidiane secondo lo schema della minaccia e della protezione, tanto più indistinta la prima quanto più indiscriminata la seconda. La retorica patriottica di questi giorni, a un pelo dal riesumare, la temibile esaltazione del pro patria mori, è interamente prigioniera di questo universo simbolico. Si dice, anche a sinistra, che abbandonare il campo in Iraq sarebbe una sorta di diserzione. Ma a volte è proprio alla figura ambivalente del disertore, invisa a ogni potere, che siamo debitori della
salvezza e della libertà. E' infatti proprio questa figura, persino nelle sue espressioni più egoistiche, a segnalare il confine tra ciò che si può chiedere e ciò che chiedere non si può, a porre un limite indiscutibilmente umano all'ideologia, alla lealtà e perfino alla fede.


di MARCO BASCETTA
 

                

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