Criminali, avventurieri o semplici
professionisti? La figura dei "soldati in affitto" è avvolta da
un alone di mistero e da una fitta coltre di pregiudizi.
Dalle informazioni raccolte da Peter Warren Singer (Soldati in
affitto, pubblicato su "Internazionale" n.536,23/29 aprile 2004)
si sa che:
- 15mila dipendenti di imprese private sono attualmente presenti
in Iraq con un ruolo rilevante nelle missioni militari;
- 30% di riduzione del numero di militari statunitensi presenti
in Iraq rispetto a quelli impiegati nella guerra del 1991;
- si stima che dai 30 ai 50 soldati delle compagnie private
siano stati uccisi in combattimento dall'inizio delle recenti
operazioni militari in Iraq;
- 6 miliardi di dollari - valore dei contratti stipulati dalla
compagnia militare privata Halliburton, l'ex-ditta del
vicepresidente Usa Dick Cheney;
- 1 milione di dollari all'anno - somma spesa per le azioni di
lobbying sui politici dalla Dyncorp, società militare privata
della Virginia che ha ottenuto il 96 per cento delle sue attuali
commesse grazie al governo federale statunitense;
- 39,2 milioni di dollari - valore dei contratti ottenuti dalla
Erinys, una compagnia nata dopo i bombardamenti sull'Iraq, per
l'addestramento dei paramilitari messi a guardia dei giacimenti
di petrolio.
Per capire meglio cosa si nasconde dietro il
fenomeno complesso degli eserciti privati, impiegati per
difendere il petrolio o i convogli umanitari a seconda del
committente, la cosa migliore è rivolgersi ai protagonisti
diretti di questo mondo.
Dopo la sua esperienza nell'esercito regolare,
oggi Guido T. è un professionista nel settore
dell'addestramento privato e ha deciso di raccontare i
retroscena del mestiere di mercenario. La prima impressione che
dà a chi lo incontra è quella di un uomo atletico ma non 'pompato',
con un fisico asciutto e poco appariscente, tutto il contrario
dei palestrati con collo taurino che interpretano il ruolo dei
soldati di professione nelle produzioni hollywoodiane.
Guido dipinge il mestiere di mercenario con i colori del grigio,
con un equilibrio che prende le distanze dal bianco dell'eroismo
e dal nero dei crimini di guerra per restituire la reale
dimensione di una 'professione', al di là dei suoi eccessi. Dal
suo punto di vista l'esistenza di compagnie militari private non
è un male in sé, ma lo diventa nel momento in cui i servizi di
queste aziende vengono impiegati per soddisfare interessi
politici, finanziari e criminali che non hanno nulla a che
vedere con la 'democratizzazione' e la lotta al terrorismo. A
lui abbiamo chiesto di illustrarci una 'terza prospettiva',
diversa da quella del pacifista convinto e del militarista
acritico.
Perché hai scelto di diventare un
combattente professionista? Quali sono le ragioni che ti hanno
spinto a lavorare per molti anni imbracciando un fucile?
Le motivazioni politiche o ideologiche non c'entrano, io sono
semplicemente una persona a cui piace l'adrenalina, mi piace
sentirmi vivo. Oggi ho cambiato mestiere perché mi sento più
tranquillo e ho cominciato a dare valore ad altre cose nella
vita, ma quando avevo 22-23 anni mi piaceva sentire l'adrenalina
scorrere nelle vene. Per un ragazzo far parte delle forze d'élite
è il massimo, è come guidare una formula uno, c'è lo stesso
gusto del rischio e di fare una cosa ai massimi livelli.
Qual è stata la tua esperienza
professionale nel settore militare pubblico e privato?
Ho lavorato due anni in Colombia, sono stato anche in Somalia e
in Egitto a lavorare come sommozzatore, ho lavorato in Marocco e
conosco bene i Paesi arabi, in Sudan ho lavorato come operatore
per le piattaforme petrolifere e dopo aver trascorso un periodo
di studio in California sono tornato in Italia per svolgere
attività di addestramento privata, con periodici rientri negli
Usa per corsi di pilotaggio avanzati. In particolare, in
Colombia ho potuto constatare che c'è un ampio spettro di
agenzie che operano sul territorio, perché la situazione si
presta perfettamente: ci sono la guerriglia, i paramilitari, i
narcotrafficanti, la Cia, l'esercito regolare, le oligarchie,
latifondisti con eserciti privati e altro ancora.
Che significato ha per te la parola 'mercenario'?
Per i giornali la parola 'mercenario' è una parola ad effetto, è
una parola che viene utilizzata proprio per attirare
l'attenzione e suscitare nell'immaginazione del lettore il
pensiero di operazioni nella jungla fatte da persone impiegate
per assassinare qualcuno a pagamento. In realtà la parola
mercenario indica semplicemente una persona che riceve un
salario per svolgere attività in cui si utilizzano armi da
fuoco, e quindi questa parola vuol dire tutto e niente dal
momento che può indicare sia le persone che fanno scorta armata
agli operatori umanitari, sia chi fa la guardia alle piattaforme
petrolifere, sia i veri e propri killer a pagamento, che oltre
ad essere mercenari sono anche criminali e assassini.
Spesso si fa distinzione tra soldati
regolari 'buoni' che si occupano del peacekeeping rispettando le
convenzioni di Ginevra, e mercenari 'cattivi' che agiscono senza
regole per interessi oscuri. Ma è proprio vera questa
distinzione? Ci sono stati dei casi in cui anche gli eserciti
regolari sono stati inviati in Paesi esteri per perseguire
interessi privati?
Io sono stato quattro mesi impiegato alle operazioni in Somalia,
realizzate dall'Italia a partire dal febbraio del 1993, la
famosa Operazione Ibis di peacekeeping. Oggi nessuno sa o
ricorda perché siamo andati a fare quel tipo di operazione. La
motivazione ufficiale riguardava la gestione di un vuoto di
potere, del caos e dell'anarchia creati in Somalia dai
cosiddetti warlords, i signori della guerra. Ma quella
situazione non era nuova, in Somalia la legge del più forte
regnava da decenni. Possono dire quello che vogliono, ma
l'operazione in Somalia è stata realizzata per il controllo del
traffico delle armi, per recuperare il controllo su una
situazione e su un mercato che erano sfuggiti di mano a causa
delle eccessive pretese dei warlords. La cosa che mi fa più
piacere è pensare che la mia squadra non si è mai macchiata di
nessun tipo di azione assurda come quelle del carcere di Abu
Ghraib, o le torture portate a termine dagli stessi soldati
italiani in Somalia. Le guerre rivelano il meglio e il peggio
degli uomini, e noi siamo stati fortunati in questo senso.
Il sequestro degli ostaggi italiani ha
portato alla ribalta l'esistenza delle compagnie militari
private, sulle quali si è detto tutto e il suo contrario. Dal
tuo punto di vista quali sono i veri problemi relativi al
cosiddetto 'business della sicurezza'?
Le compagnie militari private agiscono in uno spettro
vastissimo, che va dalla scorta alla Ong fino al consulente
strapagato dell'emiro arabo. Negli Stati uniti queste agenzie
esistono da molti anni, e hanno fatturati eccezionali. Quello
che mi ha dato più fastidio è la sorpresa, lo stupore
dell'opinione pubblica nello scoprire l'esistenza degli
'eserciti privati'. Le agenzie di sicurezza esistono da più di
vent'anni, e vengono impiegate in qualsiasi luogo del pianeta.
In una zona di guerra gli eserciti regolari non forniscono
sicurezza alle aziende o alle organizzazioni non governative, ed
è qui che nasce il business del settore privato. Certo, in
queste cose ci sono anche giochi sporchi, ma anche in questo
caso non c'è nulla di nuovo e nulla di sorprendente: è notorio
che in Colombia la Cia gestisce una
quota di narcotraffico attraverso gruppi paramilitari che
realizzano per suo conto un lavoro di intelligence e di raccolta
informazioni. Possibile che nessuno si sia mai chiesto da dove
arrivano i soldi delle armi e del narcotraffico? Con quei soldi
la Cia paga chi svolge per suo conto il lavoro di raccolta
informazioni, e nel frattempo porta avanti anche il business
della droga. Ma da qui a dire che tutto il settore militare
privato agisce nell'illegalità ce ne corre. Il vero problema non
è scoprire l'acqua calda degli eserciti privati, ma
scandalizzarsi sulle versioni ufficiali date dai politici
riguardo alla presenza italiana in Iraq. È quello lo scandalo:
raccontare una realtà che non esiste, riempiendosi la bocca di
parole come democrazia, libertà, parlamento, pieni poteri agli
iracheni. È questa è la vera cosa che dovrebbe scandalizzare,
non l'esistenza degli operatori privati di sicurezza.
Con l'abolizione della leva obbligatoria e
il fiorire delle compagnie militari private, c'è il rischio che
la sicurezza dello Stato venga in qualche modo 'privatizzata'?
Il rischio di una privatizzazione degli eserciti esiste di
sicuro, ma rientra in un processo economico più generale che va
in quella direzione, nel senso che se io sono un soldato di un
certo tipo, e nell'esercito guadagno poco, chi me lo fa fare di
rimanere nelle forze armate dello Stato? Io naturalmente
rassegno le dimissioni e vado in una agenzia privata, dove
prendo dieci volte tanto e rischio ancora meno, perché almeno
per il momento i professionisti delle compagnie militari private
non vengono impiegati in operazioni di guerra frontale.
Per quanto riguarda il recente intervento
in Iraq, credi che l'impiego di eserciti privati e le enormi
risorse investite in quell'azione siano state pilotate da
esigenze geopolitiche e finanziarie simili a quelle che hanno
guidato le operazioni in Somalia?
Quello che accade in Iraq è sotto gli occhi di tutti, qualsiasi
persona che abbia un po' di sale in zucca capisce cosa si
nasconde dietro la parola democrazia. La vera democrazia deve
nascere dal popolo e non si può esportare. Una Nazione potente
come gli Stati uniti ha bisogno del petrolio, non può farne a
meno, perché senza petrolio collasserebbe. Io ho vissuto negli
Stati uniti, ho fatto anche addestramento, e lì le famiglie
usano quotidianamente macchine che fanno solo quattro chilometri
con un litro, quindi per loro il petrolio è fondamentale. Su
questa guerra hanno detto di tutto, ma in realtà è proprio un
problema di controllo del blocco mediorientale dal punto di
vista degli oleodotti. Questo è comprensibile, perché gli Stati
uniti sono un impero, e nel corso della storia tutti gli imperi
hanno perseguito i loro interessi usando qualsiasi mezzo a loro
disposizione.
Credi che le torture nel carcere di Abu
Ghraib siano state un episodio a sè stante relativo ad alcuni
soggetti problematici oppure il sintomo di un problema più
ampio?
In una struttura militare non accade niente per caso. Sono tutte
cose pianificate, nessuno muove un dito senza ordini dall'alto.
Un conto sono le cose che io teoricamente non potrei fare dal
punto di vista delle leggi e degli accordi internazionali, e un
conto sono invece le cose che vengono comunque fatte in un
contesto di guerra. Oggi in Iraq non vige il diritto
internazionale, ma le regole decise dalle forze occupanti e
dalla guerriglia. Da questo punto di vista bisogna distinguere
l'azione delle Forze italiane da quella di altre truppe presenti
sul territorio: io sono sicuro che gli italiani stanno
rispettando le regole di ingaggio, non avrebbe senso mandarli a
sparare a vista come fanno gli americani. In Iraq chissà quanta
gente è stata ammazzata anche per divertimento, ma non da
soldati italiani. Poi tutto dipende anche dall'equilibrio del
singolo individuo e dal livello dell'addestramento ricevuto:
Full metal jacket insegna quali possono essere gli effetti
negativi del lavaggio del cervello che si subisce durante il
corso marine, un addestramento che incide a livello profondo
nella psiche. Le forze speciali, invece, vengono addestrate in
modo diverso, e non si trasformano in macchine da guerra
disumanizzate ma in professionisti che sanno gestire in modo
efficace situazioni di crisi anche grazie ad una grande
stabilità psicologica. I fanatici nelle forze speciali non sono
ammessi, l'elemento delle forze speciali è esattamente l'opposto
del fanatico: sono uomini a cui è richiesto un alto grado di
capacità critica e un equilibrio assoluto eccezionale. Tra i
soldati è un altro discorso. Se parliamo dei marine, se parliamo
dei paracadutisti, allora lì si trova di tutto: il fanatico, il
neonazista, il frustrato. Ed è da questo ambiente che nascono le
torture, gli abusi, le violazioni delle convenzioni
internazionali.
Quindi la differenza tra un soldato e un
criminale di guerra sta tutta nel livello di preparazione
ricevuto?
È una questione psicologica: il soldato delle forze d'élite,
delle forze speciali, è un individualista, una persona che
ritiene a tutti gli effetti di essere il migliore nel suo campo,
e che ha superato selezioni molto severe. A differenza della
truppa addestrata solo al combattimento, ai membri delle forze
speciali si richiedono caratteristiche di freddezza, di
resistenza psicofisica e di intelligenza che non sono doti
comuni. Chi vive al di fuori del mondo militare è convinto che
le forze speciali siano quelle più ciniche, dal grilletto facile
e con il maggiore disprezzo per la vita; ma chi conosce da
vicino la realtà di guerra sa che gli abusi, le violenze e le
torture nella maggior parte dei casi sono compiuti da soldati e
da truppe con un basso livello di preparazione e di
specializzazione. Il problema non è la devianza di poche 'teste
calde' dei reparti scelti, ma le scelte politiche che portano ad
avere soldati più o meno preparati all'interno delle truppe.
Tutti i massacri che avvengono durante le operazioni militari
vengono compiuti da questi personaggi con uno scarso equilibrio
e un basso livello di addestramento, e sempre per carenza di
comando. Se il comandante ha le palle il soldato non muove un
dito, e se è una persona integerrima i soldati si comportano in
modo integerrimo. Se i soldati hanno sopra di loro una scala
gerarchica marcia si scatenano, se invece abbiamo buoni
comandanti avremo buoni soldati. È molto delicato portare in
zona di missione comandanti senza carisma o che non sanno
comandare, perché poi sul teatro delle operazioni c'è il rischio
che la legge del più forte sostituisca la catena di comando, e
un soldato con più carisma, più forte, più violento, può avere
la meglio su tutti. In ogni caso gli eserciti rispecchiano anche
la società da cui provengono, e per quanto riguarda l'esercito
statunitense sappiamo bene che proviene da una società
abbastanza tarata geneticamente, molto triste dal punto di vista
intellettuale, e quindi ci sono persone che vanno nell'esercito
per trovare un'alternativa, una possibilità di carriera, come ad
esempio la soldatessa Lynndie England del carcere di Abu Ghraib:
glielo si legge in faccia che è proprio una povera disgraziata,
una ragazzotta abituata a crescere senza valori.
Ma non è un po' troppo comodo nascondere
tutte le responsabilità individuali dietro un cattivo
addestramento?
L'addestramento ha una grande influenza, ma non può diventare
una scusa: sono comunque le persone a decidere delle loro
azioni. Io sono comunque responsabile delle azioni che compio, e
devo agire in base ai miei valori. Personalmente non avrei mai
potuto compiere azioni come quelle fotografate ad Abu Ghraib; ma
una ragazzotta di provincia americana del Kentucky, abituata a
vivere nella tristezza e nello squallore più assoluti, dopo che
nel corpo dei marine le hanno lavato quel poco di cervello che
le rimaneva, aveva un sorriso vuoto di fronte alle vittime delle
sue torture, un sorriso che non ispira paura ma trasmette
squallore. Le responsabilità comunque, vanno anche al di là
della sfera individuale. Quella ragazza non era in grado di
rapportarsi con quello che stava facendo, e ha le sue colpe
perché come persona deve cominciare a stabilire quelli che sono
i valori delle cose; ma c'è anche una colpa del comando, perché
non si muove mai niente se il comando non lo vuole.
Quale sarebbe la tua reazione se ti
offrissero di lavorare in Iraq?
Se io oggi fossi ancora in servizio attivo e mi dicessero di
andare a combattere in Iraq, direi assolutamente di no. Il
rischio deve essere supportato da qualcosa di concreto, bisogna
chiedersi per chi e per cosa si rischia la vita, e in Iraq c'è
gente che muore per arricchire quattro riccastri, e questo non
ha senso. Che senso ha dare la vita per arricchire la famiglia
Bush che è già ricca di suo? Di fronte a queste situazioni deve
entrare in gioco una capacità critica che purtroppo non tutti
hanno. C'è chi si nasconde dietro la retorica del patriottismo
per dare un senso alle proprie azioni, ma la realtà è un'altra,
e cioè che vai a morire per niente. Davanti alla tragedia di
Nassiriya è mancata molto la pietà e l'umiltà, nessun politico
ha avuto il coraggio di dire che quelle morti erano evitabili, e
che il governo ha deciso di mandare lì quei ragazzi per
interessi economici grossi, probabilmente qualche commessa a
livello di pozzi petroliferi.