di Enzo Modugno
In assenza di guerre generali, gli Usa fomentano minacce
e attuano interventi regionali
atti a giustificare un budget militare in continuo aumento.
Il 1941 è nella storia delle guerre e del rapporto tra Stato e guerra
un anno periodizzante. Non solo perché la guerra scoppiata nel 1939
diventa veramente mondiale con l'aggressione all'Unione Sovietica e
con Pearl Harbour, ma perché gli Stati Uniti d'America sono stati da
allora continuativamente in guerra. La loro "guerra infinita"
comincia allora, con un salto qualitativo del rapporto guerra-economia.
La prima guerra mondiale era stata una guerra di rapina: il
capitalismo delle due parti belligeranti aveva come fine la
distruzione dei capitali della parte nemica per ereditarne i mercati
e le colonie.
Lo si vide bene a Versailles, quando fu chiaro che la
guerra non era stata altro che la continuazione della concorrenza
internazionale tra le grandi Potenze. Le crisi capitalistiche
nell'800 - sostanzialmente crisi di sovrapproduzione - erano state
devastanti, e avevano colpito i capitali indiscriminatamente su scala
internazionale. Con il 1914 e con l'esperienza della guerra totale,
ci si avvia a chiedersi: perché far distruggere dalla crisi i propri
capitali? Andiamo a distruggere i capitali degli altri, in modo da
evitare che siano colpiti i nostri. Quella guerra consistette quindi
evidentemente in una gestione militare della crisi economica: il
ciclo economico diventa un ciclo di guerre mondiali. Lo videro bene
coloro - come Lenin e Buckarin, come gli esponenti del nuovo
comunismo novecentesco - che parlarono di imperialismo e di una
prospettiva di più guerre generali imperialistiche.
La guerra (che per gli americani durò circa un anno e mezzo, tra 1917
e '18) come gestione della crisi funzionò a meraviglia: il
capitalismo tedesco fu colpito gravemente e per il momento azzerato,
perdette colonie e mercati, mentre gli Usa si avviarono a diventare
la prima Potenza mondiale. Gli anni Venti furono un decennio di
grande euforia e di inedito sviluppo economico: il fordismo ne fu la
manifestazione più evidente. La produzione raggiunse in America
livelli tali, che ne derivò la crisi di sovrapproduzione più
devastante del `900: quella che scoppiò nel "giovedì nero"
dell'ottobre 1929.
Qui si pone un problema decisivo: è possibile una guerra mondiale
ogni volta che si ripresenta la crisi economica? Nel 1929 non c'era
ancora una guerra mondiale a portata di mano. Ne seguì la più grave e
lunga depressione del secolo, che ancora nel 1939, allo scoppio della
seconda guerra mondiale, non era stata risolta.
La società americana si era intanto avviata ad una trasformazione
economica e sociale radicale, per l'affermarsi del taylorismo-fordismo e dei consumi di massa. Si scoperse che era possibile
manipolare i consumi di massa cioè agire sulla domanda, portandola a
livello della quantità delle merci prodotte. Keynes poté allora dire
che lo Stato avrebbe potuto intervenire per sostenere la domanda, tra
l'altro con la spesa pubblica. La spesa pubblica può essere civile o
militare; la prima via, quella della spesa pubblica civile, fu
tentata dagli Usa con il New Deal, che però non fu sufficiente; la
depressione - ripetiamo - non accennò a sparire. Quale fu dunque l'insegnamento della crisi?
Occorre riflettere in primo luogo, sul fatto che essa avvenne
esattamente a metà del periodo "tra le due guerre", periodo che gli
storici oggi concordemente riassorbono nella definizione di una
ininterrotta "nuova guerra dei trenta anni", dal 1914 al 1945. La
politica economica statunitense era condizionata dall'isolazionismo,
che aumentò gli effetti della depressione. L'inefficacia del New Deal
ai fini del rilancio dell'economia e la grande spinta che invece si
ebbe già nei primi mesi di guerra dimostrarono che non può sussistere
un "keynesismo civile" senza il corrispettivo "keynesismo militare".
L'insegnamento della crisi fu dunque quello del necessario
collegamento tra l'elemento interno e l'elemento esterno, le famose
due facce della politica economica e della politica tout court. Ma le
soluzioni proposte non furono sufficienti. Scrivono Paul A. Baran e
Paul M. Sweezy nel loro saggio degli anni '60 su Il capitale
monopolistico:
" Considerato come operazione di salvataggio dell'economia degli
Stati Uniti nel suo complesso il New Deal fu quindi un palese fallimento. Anche Galbraith, il profeta della prosperità senza
commesse belliche ha riconosciuto che nel decennio 1930-40
l'obiettivo non fu neppure sfiorato. Secondo le sue parole, la
grande crisi non terminava mai. Essa scomparve soltanto con la grande
mobilitazione degli anni `40'.
La spesa militare fece ciò che la spesa sociale non era riuscita a
compiere. Dal 17,2 per cento della forza-lavoro, la disoccupazione
scese a un minimo dell'1,2 per cento nel 1944. L'altra faccia della
medaglia fu l'aumento della spesa pubblica, che passò da 17,5
miliardi di dollari nel 1939 a una punta massima di 103,1 miliardi di
dollari nel 1944".
A proposito del ruolo che gli Stati Uniti, con le due guerre
mondiali, guadagnarono nel mondo, gli stessi autori scrivono
riassuntivamente:"In realtà, durante tutto il periodo che va dal 1914 al 1945 la
potenza relativa degli Stati Uniti crebbe più o meno
ininterrottamente a spese di nemici e alleati e alla fine della
seconda guerra mondiale vediamo gli Stati Uniti emergere come
indiscussa nazione egemone del mondo capitalistico [.]". ( ed. it.
Einaudi, 1968, pp. 136-137 e 154)
Il saggio dei due marxisti americani va a mio avviso riproposto
ancora oggi alla lettura proprio in momenti, come quello che stiamo
vivendo, in cui il neoliberismo, pur rifiutando il keynesismo, ha in
effetti assunto - da Reagan in qua - il "keynesimo militare" come
pilastro di politica economica.
L'aggressione giapponese a Pearl Harbour fu quindi provvidenziale a
tale punto che si è pensato che essa fosse il frutto di provocazioni
e addirittura di sottili manovre americane per favorire l'entrata in
guerra del gigante americano, una specie di "Torri gemelle"
nell'arcipelago delle Hawaii. In pochi mesi di guerra e di spesa
pubblica militare - già in aumento a partire dal 1939 con i
rifornimenti militari alla Gran Bretagna, ma ancora insufficiente -
la disoccupazione praticamente sparì, il lavoro straordinario divenne
la regola. Keynes aveva quindi ragione: non la distruzione di
capitali altrui, ma la spesa pubblica propria poteva riavviare
l'economia. E fu la spesa pubblica militare a dimostrare d'essere la
più efficace.
Il 1941 fu dunque un anno periodizzante. La condotta della guerra da
parte degli USA tra il 1941 e il 1945 dimostrò alcune importanti
conseguenze del principio base:
1 - il grande e subitaneo incremento economico che finisce con il
costituire il raggiungimento dello scopo della guerra e in anticipo
rispetto al suo esito e
2 - a prescindere anche da esso: non è tanto la distruzione delle
nazioni capitalistiche concorrenti sul mercato internazionale a
determinare il rilancio dell'economia e la protrazione della vita del
capitalismo, quanto la spesa pubblica militare in sé;
3 - da allora un elemento nuovo viene a determinare la grande
strategia politica della Superpotenza americana: la guerra diventa
per l'establishment statunitense il principale strumento di politica
economica;
4 - in questo quadro un'importanza centrale venne ad assumere a
partire dal 1942 la produzione della bomba e degli armamenti atomici:
intorno a questi ruotavano non soltanto una strategia, ma un'economia
e una produzione che appaiono ben presto caratterizzanti le vere
fonti della politica USA, ciò quello che Eisenhower definì "complesso
militare industriale"
5 - quella che si chiama guerra fredda è il risultato di tutto ciò;
non c'è più il classico dopoguerra dei manuali di storia e del canto della
cultura capitalistica, con i temuti postumi e i "torbidi sociali" che avevano
caratterizzato gli anni dal 1918 al 1921-23. La "guerra fredda" rappresenta la
necessità della continuazione di un trend i cui vantaggi sono ormai comprovati e
di cui lo sviluppo della tecnologia, in primo luogo militare, è il supporto;
6 - a questo punto la necessità di una guerra generale guerreggiata
lascia il posto ad una continua minaccia della stessa, spinta fino ad
una politica di brinkmanship
e a guerre "minori". Inizia un sorprendente fenomeno di separazione
tra spesa pubblica militare e guerra; le guerre saranno locali, e
avverranno in una conveniente atmosfera di anticomunismo e di difesa
del "mondo libero" e di una "democrazia" sempre più formale.
Un preciso riscontro di tutto ciò lo troviamo in un giudizio del
sovietico Georghi Arbatov secondo il quale il quale Gorbaciov ha
compiuto l'atto più ostile contro l'Occidente, portando l'Urss verso
la dissoluzione e quindi sottraendogli il nemico. Caduta l'Unione
Sovietica venne meno una minaccia che era il volano della spesa
militare e dell'apparato che concretamente la determinava. Ma questo
apparato postula e quindi crea o enfatizza una minaccia permanente e
graduabile che legittima un'intera struttura economica e politica.
Senza di essa, non vi è né giustificazione esterna né consenso
interno.
Sull'ultimo numero 41 "Giano" Luigi Cortesi ha citato e commentato un
passo dei primi anni `70 del grande storico ed economista Georg
Hallgarten, relativo all'uso americano della minaccia sovietica:
"Se questa tremenda potenza sovietica non fosse esistita - scriveva
Hallgarten - l'Occidente, per parafrasare il famoso detto di
Voltaire, avrebbe dovuto inventarla. In questo periodo, tanto le
forze armate statunitensi quanto gli interessi in esse investiti
avevano raggiunto proporzioni tali che l'improvvisa scomparsa
dell'avversario sarebbe stata equivalente a un disastro sociale"
G.H., (Storia della corsa agli armamenti, Roma, Editori Riuniti, 1972.
p. 289).
Commenta Cortesi:
"Scomparso dunque il nemico, come evitare il disastro della pace? Non
è facile rendersi conto che gran parte dei problemi del nostro tempo - in questo passaggio di secolo e di millennio - sono scaturiti dalla
risposta che nei primi anni '90 fu data a quella cruciale domanda"
("Giano", n. 41, p. 80)
Una nuova minaccia o quanto meno un nuovo incipiente rischio doveva
essere costruito: gli anni 90, dalla prima guerra contro l'Iraq di
Bush padre alla partecipazione alla guerra contro la Jugoslavia, fino
al recente (2002) documento The National Security Strategy di Bush
figlio hanno visto esattamente la gestazione e lo svolgimento di
questa operazione di costruzione della minaccia. Come ha dichiarato
il presidente Usa a Praga, "La guerra fredda è finita; ma ora ci sono
nuovi nemici. Ci abbiamo messo dieci anni per capire qual'era il
nuovo pericolo".
Ma con ciò il concetto e la pratica della guerra, mentre vanno
incontro a mutamenti radicali, storici, di modalità, assicurano la
perpetuazione dei conflitti armati in presenza di armi sempre più
letali capaci di distruzione a livello planetario, di cui il
capitalismo non fa particolarmente questione. Tuttavia Al Qaeda non è
l'Armata Rossa, non ha altrettanta credibilità. La versione
ufficiale, che si fonda sulle capacità offensive del terrorismo e
sulla necessità di contrastarle, non è sufficiente a reggere
l'immensa impalcatura del "complesso militare industriale". Occorre
dare corpo ad una "strategia della tensione" globale e totale.
Questione palestinese e Ceceni, islamismo e "asse del male", rivolte
contro le multinazionali e movimento contro la guerra sono momenti di
un puzzle che lo strapotere mediatico e la rozzezza della strategia
texana promuovono a fenomeno unico. Gli attentati dell' 11 settembre
gli hanno fornito la miccia più adatta. Non pochi commentatori anche
americani, però, avanzano gravi sospetti sul comportamento dei
servizi - americani e alleati - in quella occasione (vedi Giulietto
Chiesa, La guerra infinita, Milano, Feltrinelli, 2002, spec. Cap. 5),
nonché Ahmed Raschid, Guerra alla libertà e R. Goldstein, La guerra
va a tutto gas, "il manifesto" 21.12. 2002).
Per dare al tutto una vera affidabilità si drammatizza la carenza di
petrolio e si finge la possibilità che il mondo islamico tronchi i
relativi rifornimenti. Il petrolio è invece un elemento di
costruzione della minaccia, e la sua enfatizzazione è largamente
strumentale. Il problema reale ed immediato è costituito invece da
una crisi capitalistica che si trascina dai primi mesi del 2001 e che
l'economia degli Usa - dopo avere messo in atto tutti i possibili
rimedi, dal taglio della imposizione fiscale alla diminuzione dei
tassi - non può che affrontare nei termini del massiccio ricorso ad
una gestione militare della crisi stessa. La questione del petrolio
esiste al di qua e al di là della guerra; essa involge anche problemi
di controllo del mercato e controllo delle risorse globali, ma il
problema esiste sullo sfondo della visione prioritaria dei livelli
economici della crisi in atto e di una definizione dello stato
attuale dello sviluppo del capitalismo.
Enzo Modugno: Curatore delle riviste "Monthly Review"
e "Marxiana", ha pubblicato numerosi saggi ed ha collaborato con
riviste italiane e straniere. |