DA
:
Peacereporter
Afghanistan - Kandahar 2/6/04
L'oppio dei
poveri
Un viaggio tra le piantagioni
afgane di papaveri da oppio
Dal nostro inviato
Enrico Piovesana
Com’era una volta da noi
per la vendemmia, quando in autunno tutti abbandonavano
temporaneamente i lavori usuali per ritrovarsi tutti tr a i
filari a raccogliere e chiacchierare, cantare e mangiare
assieme, così è in queste settimane di inizio maggio in
Afghanistan, tempo di raccolta dell’oppio. Orti, cantieri,
botteghe e stalle di tutto il paese subiscono un’emorragia
di lavoratori che per un po’ di giorni si trasferiscono
nelle coltivazioni di papaveri da oppio di parenti e amici.
Per dare una mano, per socializzare, per divertirsi, e
soprattutto per riportare a casa un piccolo tesoro che
gioverà non poco alle sempre troppo magre finanze familiari.
Provincia di Kandahar, Afghanistan
sud-occidentale. Qui la diffusione dei campi di papaveri è
simile a quella dei vigneti in Italia centrale: dai piccoli
campicelli familiari, fazzoletti di poche decine di metri
quadri, alle grandi piantagioni dei latifondisti che si
estendono a perdita d’occhio. Ahmad, Rahmat, Najib, Muahmed,
Gulumnabi, Sheriaga e i loro amici sono al lavoro tra i
papaveri. Molti sono ancora in fiore, ornati da bellissimi
petali bianco-rosa. Ma la maggior parte sono nudi, con la
capsula verde gonfia e dura, pronta per essere incisa.
Questa
operazione avviene di sera. Con dei piccoli arnesi di legno
su cui sono stati applicate cinque piccole lamette
parallele, i raccoglitori girano per il campo incidendo una
ad una le teste dei papaveri. Dai tagli fuoriesce un lattice
bianchiccio che durante la notte si rapprende e si scurisce.
Il mattino dopo è pronto per essere raccolto, raschiato via
con una specie di piccolo falcetto. La sera, ogni capsula
viene nuovamente incisa, per essere poi raschiata la mattina
dopo. La raccolta prosegue così per alcuni giorni, finché i
papaveri iniziano a seccarsi. A quel punto sono pronti per
essere tagliati e accatastati. Le capsule vengono aperte per
prenderne i semi per la prossima stagione. Dentro ad ogni
papavero ci sono centinaia di granelli chiari, simili al
sesamo. Sono considerati una prelibatezza, che i
raccoglitori mangiano con gusto alla fine della giornata
lavorativa. Questo è l’unico utilizzo che gli afgani fanno
dell’oppio, o meglio dei papaveri.
Quasi nessuno in Afghanistan fuma
oppio, anche se adesso alcuni giovani stanno iniziando,
soprattutto nelle periferie delle grandi città. A Kabul, tra
le macerie dei quartieri occidentali, i più devastati dalla
guerra e i più poveri, molti giovani si ritrovano per
drogarsi con l’oppio. Il punto di spaccio principale sono i
locali abbandonati e diroccati di un vecchio cinema. Un
problema emergente, per fortuna ancora non paragonabile alla
piaga che invece affligge il Pakistan e l’Iran, dove la
gente si vende anche le pentole per comprarsi un po’ di
oppio da fumare. Un po’ come per l’uva, che qui in
Afghanistan viene coltivata non per farne vino, ma solo per
produrre uva passa. Il fatto che gli afgani non vivano sulla
loro pelle, per ora, i devastanti effetti sociali prodotti
dall’oppio è una delle ragioni per cui questa cultura
tradizionale viene vissuta come innocua e quindi mantenuta.
Ma il
motivo principale è ovviamente quello economico. Quest’anno
un chilo di oppio viene venduto ai ‘trafficanti’ per cento
dollari (contro i cinquanta dell’epoca talebana, prima che
la produzione venisse interrotta facendo schizzare i prezzi
a cinquecento dollari al chilo). Contando che il più piccolo
campicello familiare può produrre almeno una decina di chili
e quindi fruttare un migliaio di dollari, una fortuna in
questo paese, è facile capire perché i papaveri vengono
preferiti ad altre colture, come il grano, che frutta
all’incirca un decimo. Una grande piantagione come quella in
cui lavorano Ahmad e i suoi amici produce anche cento chili
di oppio, cioè diecimila dollari circa. Di questi, una parte
va ai raccoglitori, una parte al proprietario della
piantagione e una percentuale, una sorta di tassa di
produzione che varia dal dieci al venti per cento, alle
autorità locali.
Questo è un altro grosso ostacolo a
ogni programma di sradicamento delle colture di papaveri. Il
governo centrale non ha alcun potere al di fuori di Kabul.
Per gli afgani il presidente Hamid Karzai non rappresenta
altro che il sindaco della capitale. Il resto del paese, a
due anni e mezzo dalla caduta dei talebani, è ancora
governato dai signori della guerra locali restii a
sottomettersi al potere centrale, con cui hanno un solo tipo
di rapporto: quello tributario. Come i feudatari con il re
nel medioevo, questi signorotti versano a Kabul parte dei
tributi raccolti nelle province da essi controllate. Tributi
che però, per l’appunto, provengono in gran parte dalle
tasse sull’oppio. Secondo le più recenti stime delle Nazioni
Unite, l’oppio rappresenta quasi il cinquanta per cento del
Pil afgano. Estirpare l’oppio porterebbe quindi alla
bancarotta nazionale e al precario equilibrio politico che
regna in Afghanistan.
A
denunciare pubblicamente questa situazione è stato nei
giorni scorsi addirittura il ministro degli Interni afgano.
"Rappresentanti del governo e signori della guerra locali
sono pesantemente coinvolti nella produzione e nel traffico
illecito di oppio, e stanno trasformando il nostro paese in
un narcostato ", ha dichiarato il ministro in
un'intervista Kabul Times, unico quotidiano della capitale.
"Non posso dire chi fa cosa, ma posso affermare che il mio
ministero ha raccolto prove sufficienti per dimostrare che
funzionari del governo, compresi i ufficiali dell'esercito e
della polizia, sono implicati nel narcotraffico. Quelli che
non sono direttamente coinvolti nel business, offrono
protezione a produttori e commercianti in cambio di denaro.
Sappiamo nomi e cognomi dei funzionari colpevoli, ma solo in
pochi casi siamo riusciti a intervenire e ad arrestarli".
In queste condizioni di contiguità tra
potere politico e potere crimine è ovvio che ogni programma
di sradicamento finisce con l'essere solo una messa in scena
ad uso e consumo della comunità internazione, che colpisce
solo i contadini, i pesci più piccoli del sistema, senza
intaccare il grande business gestito dai pesci grossi,
magari gli stessi che assistono e plaudono a queste
operazioni. Operazioni che vedono solitamente impegnati
alcuni trattori che dissodano il terreno estirpando i
papaveri, scortati da centinaia di soldati armati di mitra e
lanciarazzi. Se durante questi blitz non si sono ancora
registrate rivolte dei contadini è solo perché i locali
signori della guerra e dell'oppio, che per il quieto vivere
accettano di sacrificare qualche campo, le scoraggiano. Se
il programma di sradicamento non fosse solo una finta ma una
vera guerra l'oppio, questi signori non ci metterebbero
molto a distribuire kashnikov e lanciarazzi ai contadini e a
chiamarli alla rivolta armata contro il governo.
Se
poi si considera che l'Afghanistan è anche in piena vigilia
elettore è facile intuire perché Karzai, che punta la
conferma del suo mandato provvisorio, preferisca non pestare
troppo i piedi ai notabili locali e non alienarsi le
simpatie delle masse contadine del paese. Quindi i suoi
recenti proclami di jihad, di guerra santa contro l'oppio,
lasciano il tempo che trovano. Così come i suoi propositi di
portare avanti la lotta la droga distinguendo tra i
contadini e i trafficanti. Parole che contrastano in maniera
stridente con la realtà dei fatti. I fatti sono quelli
riportati dal già citato ministro degli Interni. "A Kabul
stiamo arrestando moltissimi trafficanti, ma questo avviene
solo per un motivo: perché lo smercio di oppio, grezzo o
lavorato, sta assumendo dimensioni tali da non riuscire più
a rimanere invisibile. Quindi qualcuno finisce nella nostra
rete. Ma è solo la punta di un iceberg che sta crescendo, e
cresce per colpa della corruzione, del malaffare e della
criminalità che dilaga nel governo presieduto da Hamid
Karzai e sostenuto dagli Stati Uniti".
Rahmat, il
contadino, risponde con una gran risata quando gli si chiede
perché gli afgani non smettono di coltivare oppio. "Perché
dovremmo smettere? Lo facciamo da sempre. E' l'unica fonte
di reddito decente che abbiamo. E' grazie l'oppio se non
moriamo di fame e riusciamo a pagare la decima ai signori
locali. Se coltivassimo riso, saremmo ancora più poveri di
quello che già siamo. Certo, se il governo, invece di
distruggere le coltivazioni senza nemmeno compensare
adeguatamente i contadini, facesse qualcosa per noi, se ci
fornisse in cambio sementi e concimi, buoni impianti di
irrigazione e macchinari agricoli decenti, dei trattori ad
esempio, noi potremmo campare anche coltivando altro, perché
la produttività e dunque i guadagni sarebbero buoni anche
coltivando grano o riso per esempio. Ma finché non avremo un
vero governo, un governo che pensa al benessere della gente,
finché a comandare saranno i signori e i comandanti militari
locali che pensano solo ad arricchirsi sulla nostra pelle,
non ci possiamo permettere di smettere con l'oppio".
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