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Il prof. Sartori sulla riforma costituzionale

Le promesse non contano

Giovanni Sartori, Corriere della Sera, 04-06-2006

Le costituzioni non sono né di destra né di sinistra. O sono ben fatte (accettabili) o sono malfatte (inaccettabili). Il che sottintende che una costituzione dovrebbe essere giudicata secondo criteri funzionali. Funzionerà bene? Funzionerà male? Ma siamo in Italia. Guai a fare le cose nel modo giusto. Così la sinistra (da sola) ha votato una riforma federalista nel 2001; dopodiché la destra (da sola) ha modificato la riforma federalista della sinistra e, per di più, ha anche radicalmente modificato la forma di governo. A questo punto ci casca addosso il 25 giugno un referendum che dovrà approvare o rifiutare la Carta imposta a colpi di maggioranza blindata dalla destra sulla sinistra. Ed è quasi inutile protestare osservando, come ho già osservato nel mio incipit, che le costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Esattamente come non lo sono le medicine, o qualsiasi commestibile. La medicina rossa non esiste, così come non esiste la carne azzurra (Forzista) o il pesce democristiano. Eppure in Italia — ridiamoci sopra insieme — è così.
Il mio editoriale del 27 maggio ha sollecitato parecchi interventi: di Barbera e Ceccanti, di Panebianco e Salvati e, ieri, di Bassanini ed Elia. Interventi che mettono a fuoco i preliminari del dibattito. Tra questi se sia il No (rifiuto) oppure il Sì (approvazione) a meglio garantire una ripresa costruttiva del processo di riforma costituzionale. Un dibattito che viene subito falsato dall'argomento che la vittoria del No darebbe il potere di bloccare tutto ai conservatori costituzionali a oltranza. Quacquaraquà a parte, chi sarebbero? Esiste un volume curato da Bassanini nel quale 63 costituzionalisti dichiarano che la nuova Costituzione è «sbagliata» ma ritengono al tempo stesso che la Costituzione del '48 debba essere migliorata e corretta. L'altro giorno l'Associazione Italiana dei Costituzionalisti si è espressa nello stesso senso.
Dal che si ricava che gli immobilisti costituzionali sono un'invenzione di comodo che fa comodo — cito per tutti il Tremonti inedito di ieri — per sostenere che bisogna «votare sì al referendum per non interrompere il cammino delle riforme». A me, confesso, il bidone sembra monumentale. Promettere che una Costituzione approvata in Parlamento e poi confermata da un referendum verrà subito dopo ritoccata è davvero una promessa a credibilità zero.
Sì, è vero che d'un tratto i Berlusconi boys si dichiarano accomodanti e pronti a negoziare. Persino Bossi, figurarsi. D'un tratto perché sinora hanno fatto la faccia feroce. Pertanto, è di tutta evidenza che se ora si trasformano in agnellini è perché temono di perdere il referendum. Ma se lo vincessero, direbbero subito che la volontà popolare è intoccabile.
Come scrivono Bassanini ed Elia, «la priorità assoluta è la vittoria del No. In caso contrario prevarrebbe la conservazione di una riforma sbagliata e ingestibile». La vittoria del No, invece, non precluderebbe nulla. Cadrebbe il Federalismo 2 di Bossi; e anche se così resterebbe in vigore l'altrettanto sbagliato Federalismo 1 della sinistra, a questo effetto la sinistra largamente conviene, da tempo, di avere sbagliato. Il No apre dunque una speranza credibile di buone riforme; il Sì ci inchioderebbe invece senza scampo a una Costituzione disastrosa.


Se cambiare è peggiorare

Giovanni Sartori, Corriere della Sera, 21-05-2006

 

Bene o male le alte cariche dello Stato sono in carica. Male più che bene Prodi è riuscito a confezionare un governo. Così per una diecina di giorni il popolo si può rilassare. Ma a fine maggio ci saranno importanti elezioni amministrative (tra l’altro a Roma e Milano). Dopodiché il 25 giugno arriva il referendum confermativo, o sconfermativo, della nuova costituzione. Anche se il buon popolo forse non lo avverte, quest’ultimo è il voto più importante di tutti. La costituzione stabilisce le regole della politica e della gestione del potere. Regole malfatte, che non funzionano, creano un Paese che non funziona. Regole che limitano poco e male il potere sono regole che portano all’abuso di potere. Per di più, le costituzioni durano; e se sono buone costituzioni è bene che durino. Ma durano anche perché sono difficili da cambiare. Il che sottintende che se facciamo una cattiva costituzione il rischio è che ce la dovremo tenere.

Dobbiamo davvero cambiare ab imis la costituzione vigente? L’argomento dei «cambisti» è che chi difende la costituzione del ’48 è un «conservatore», un invecchiato, un sorpassato, sordo alle esigenze del progresso. Ma questo è uno slogan di bassa e sleale propaganda. Alla stessa stregua è conservatore il medico che ci conserva in vita, il pompiere che ci conserva la casa che sta bruciando e l’ecologista che si batte per conservare un’aria pulita. Scorrettezze polemiche a parte, il discorso serio è che cambiare una buona (relativamente buona) costituzione per una cattiva costituzione è un «cambismo» stolto e dannoso. Una costituzione è da conservare finché non si dimostri che sia necessario rifarla e, secondo, a condizione che sia sostituita da una costituzione migliore. E sfido chicchessia a dimostrare che la carta Bossi-Berlusconi sia preferibile, nel suo insieme, a quella del '48.
 

Le difese della nuova Carta sono due. La prima è che finalmente crea una Italia federale. Benissimo. Il guaio è che quel progetto è fatto con i piedi. Ma sul federalismo «alla Bossi» è doveroso dedicare un (prossimo) pezzo a sé. La seconda difesa - di Calderisi e Taradash, lettera al Corriere del 13 maggio - merita invece di essere affrontata subito, e argomenta che la nuova costituzione ha il fondamentale merito di eliminare il bicameralismo simmetrico, o paritario (due Camere con uguale potere), perché «sottrae la fiducia al Senato». L’argomento è davvero tirato per i capelli. C’è bisogno di impiombare il Paese con una macchinosa devolution per così poco? Basterebbe un articoletto che dica press’a poco così: che nel caso di maggioranze diverse nelle due Camere (altrimenti non c’è problema) il voto di fiducia compete soltanto alla Camera dei deputati. Per andare da Roma a Firenze Calderoli mi vorrebbe far passare da Pechino.

Grazie no: preferisco la via diritta. L’argomento è anche manchevole perché riduce il problema al voto di fiducia. Ma in Parlamento si votano leggi tutto il tempo e ogni volta il governo deve ottenere una maggioranza che approva. Anche se il caso viene limitato alla legislazione concorrente, non ci siamo lo stesso. L’ultimo affondo del Nostro è che «se il 25 giugno dovesse prevalere il no alla riforma la spinta conservatrice (sic , ci risiamo) sarebbe tale da congelare qualsiasi tentativo riformatore della nostra Carta del ’48». Ma perché mai? Sono decenni che i costituzionalisti propongono ritocchi migliorativi di quel testo. Se l’ultimo «riformone» verrà bocciato forse è l’occasione buona per arrivare finalmente alle «riformine» che occorrono.


Giovanni Sartori, Corriere della Sera, 27-05-2006

Venendo al dibattito, il punto toccato da tutti è che il bicameralismo paritario «è una stranezza italiana che non ha eguali in nessuna parte del mondo» (Vassallo), che è «un mostro tutto e solo italiano» (Calderisi e Taradash).
Il che è abbastanza vero. Però mi fa specie che questo sia il solo «mostro» per chi ne propone (ivi incluso specialmente il prof. Ceccanti) di ben più mostruosi: 1) l'elezione popolare diretta del premier, 2) il potere del suddetto premier di sciogliere le Camere «sotto sua esclusiva responsabilità», e cioè a suo arbitrio, 3) la normativa anti-ribaltone, 4) il ritorno pressoché automatico alle urne se le elezioni non producono la maggioranza voluta.
Qui abbiamo quattro mostri che sono davvero tali non solo perché non esistono in nessuna parte del mondo, ma ancor più perché distruggono il sistema parlamentare per sostituirlo con Quasimodo (il mostro di Notre Dame del romanzo di Victor Hugo). Ciò precisato, nel 1994 scrivevo in un mio libro che «un bicameralismo che deve presupporre, per funzionare, maggioranze omogenee fornisce un esempio macroscopico di costituzionalismo mal concepito». Dopodiché illustravo vari possibili rimedi. Al momento mi preme soltanto di ribadire che non dobbiamo certo digerire la devolution bossiana per addivenire a un bicameralismo differenziato.

 

                

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