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Breve storia della Mafia

Storia di Cosa Nostra tratta da : http://scuole.monet.modena.it/ipcorni/mafia/stocn52.htm

La storia di Cosa Nostra può essere suddivisa in cinque periodi:

1. 1860-1926: periodo della mafia rurale, dei "campieri" (o "gabelloti");

2. 1926-1943: dal prefetto Mori allo sbarco degli Alleati in Sicilia;

3. 1943-1947: periodo di transizione e movimento indipendentista siciliano;

4. 1947-1970: mafia dei suoli urbani e del commercio agricolo;

5. 1970 ad oggi: mafia imprenditrice.

6. la guerra di mafia negli anni Ottanta.

Come per ogni suddivisione storica, anche in questo caso le date vanno prese in maniera indicativa, essendo i passaggi dall'uno all'altro periodo avvenuti spesso con lentezza.

L'evoluzione che qui proposta può essere tuttavia idonea a ricostruire i principali passaggi della storia della mafia siciliana.

Attorno alle date indicate, infatti, si sono verificati dei cambiamenti sostanziali nel tipo di organizzazione illegale mafiosa, in corrispondenza di mutamenti della società siciliana, o di avvenimenti storici di rilievo nazionale. Una delle caratteristiche della mafia, infatti, è di essere sempre in relazione con la società ; che cambia, in una posizione prevalentemente parassitaria, spesso di freno allo sviluppo, ma pronta a modificarsi, anche profondamente, con il mutar degli eventi.

Da questo punto di vista, la prevalente metafora della piovra mal si attaglia alla realtà mafiosa, in quanto lascia pensare ad un potente animale in grado di immobilizzare la società che cattura. Invece la mafia è forse meglio rappresentabile con l'immagine del parassita, o di un liquido che pervade di sé l'intera società e ne segue l'evoluzione, adeguandosi ai tempi.

Pur cambiando negli anni, tuttavia, la mafia conserva sempre alcuni caratteri specifici che ne fanno un fenomeno storico ben individuato. Possiamo delineare tali caratteri secondo il seguente schema:

1. Controllo del territorio, in concorrenza con il potere statale costituito;

2. Esercizio di un vero e proprio monopolio illegale della forza, anche in questo caso in concorrenza con il monopolio statale;

3. Propensione a trovare forme di compromesso con le autorità ufficiali, che spesso vengono corrotte o in qualche modo "contattate" dalla mafia per non arrivare ad un conflitto diretto;

4. Tendenza a risolvere i conflitti, sia all'interno che verso l'esterno, con un tasso di violenza molto elevato;

5. Presenza di un'organizzazione verticistica a dalle regole ferree codificate (il che distingue la mafia siciliana dalla 'ndrangheta e dalla camorra).

 

La mafia delle origini

Cerchiamo ora di approfondire l'evoluzione storica della mafia, evidenziando i momenti sia di continuità che di cambiamento. Molti studiosi fanno partire la storia della mafia dall'Unità d'Italia. E questo non perché prima fosse assente in Sicilia una qualche forma di criminalità che somigliasse a quella mafiosa, ma perché è in quel momento storico che si evidenzia un conflitto palese tra questa criminalità - che va organizzandosi in maniera sempre più rigida - e lo Stato.

L'Unità d'Italia in Sicilia accelerò fortemente un processo di fine della struttura feudale delle campagne, nel momento in cui integrò l'economia siciliana in quella del resto del paese. Inoltre, il nuovo governo piemontese si sovrappose ad una struttura sociale siciliana senza riuscire ad interagire positivamente con essa. Conseguenza di questi cambiamenti fu che nelle campagne i grossi latifondisti, che avevano detenuto interamente il potere fino a quel tempo, cominciarono ad aver bisogno sempre più di qualcuno che garantisse loro un controllo effettivo delle proprietà, sia per difendersi dal brigantaggio, sia per resistere alle nascenti pretese delle classi contadine per una più equa distribuzione del prodotto del loro lavoro.

Questo ruolo, che in altri paesi ed anche in altre zone d'Italia fu tipicamente un compito affidato alla classe borghese imprenditoriale, aiutata nella sua affermazione dallo stato liberale, venne assunto in Sicilia da alcuni personaggi che presero il nome di "campieri" (perché controllavano i campi) o "gabelloti", in quanto riscuotevano, per conto del padrone, le "gabelle". Quindi, fin dal principio, la mafia si delinea come un'organizzazione che assume dei ruoli pubblici per eccellenza, che altrove sono di competenza dello Stato.

Per farlo, i mafiosi ebbero fin dalle origini contatti molto stretti con il potere pubblico. A quell'epoca le collusioni più evidenti erano con il corpo dei "militi a cavallo", una forza di polizia addetta al controllo delle campagne. Poiché tali militi avevano una responsabilità diretta per i danni arrecati alle proprietà rurali, che erano tenuti a risarcire, avevano la tendenza a cercare di evitare i furti, spesso mettendosi d'accordo con briganti e mafiosi perché li facessero in territori non di loro competenza. Ma le collusioni, fin d'allora, non si limitavano ai bassi livelli, ma arrivavano a toccare le autorità prefettizie (che avevano allora molto più potere che oggi) e, segno di grande continuità con l'oggi, i politici. Ed è del tutto naturale che il terreno per queste collusioni era più nelle città, dov'era concentrato il potere politico, che nelle campagne. In questo senso, di recente, S. Lupo ha sostenuto che è un errore considerare la mafia delle origini soltanto come mafia rurale, in quanto il ruolo delle città, come luogo politico e commerciale, era invece molto importante.

 

Il "prefetto di ferro"

Con alterne vicende, la situazione descritta nel capitolo sulla mafia rurale andò avanti fino all'avvento del Fascismo.

Con il nuovo regime, divenne evidente che la funzione della mafia di concorrenza con i poteri dello stato non poteva essere tollerata da un sistema di potere che dall'esercizio assoluto del monopolio non solo della forza, ma anche del controllo sociale, traeva la sua ragion d'essere. Fu per questo che mafia e Fascismo entrarono in rotta di collisione.

Il 22 ottobre 1925 si insediò a Palermo il prefetto Cesare Mori, che sarebbe passato alla storia con il soprannome di "prefetto di ferro". I suoi metodi si rivelarono subito di estrema decisione e violenza. Leggiamone il resoconto dal volume di C. Duggan:

""L'assedio di Gangi" ebbe inizio la notte del 1 gennaio 1926 [...] Carabinieri e membri della Milizia occuparono come posti d'osservazione le cime delle colline. Nevicava abbondantemente. I banditi erano stati spinti dal freddo a tornare alle loro famiglie, e la polizia sapeva più o meno esattamente dove si trovavano. L'unico problema fu che Gangi era un paradiso per i banditi. La cittadina era costruita sul fianco di una collina ripida e molte case avevano due ingressi, uno al pianterreno e l'altro al primo piano. Vi erano anche nascondigli abilmente costruiti dietro muri, sotto i pavimenti o nei solai, ad opera di un certo "Tovanella".
In queste condizioni, l'operazione ebbe un andamento più lento del previsto. Il primo bandito ad arrendersi fu Gaetano Ferrarello, un uomo alto, anziano, con una lunga barba, molto orgoglio e dotato di una certa nobiltà d'animo. Era stato latitante per trent'anni. Uscì dal nascondiglio la mattina del 2 gennaio, si avviò verso la casa del barone Li Destri, attigua alla piazza centrale, e si costituì al questore Crimi, l'uomo inviato da Mori a condurre l'operazione. [...]
Ferrarello si sbagliava se pensava che a quel punto Mori avrebbe desistito. Scopo dell'azione non era semplicemente la resa dei banditi, ma anche la loro umiliazione: "Volevo dare alle popolazioni la tangibile prova della viltà della malvivenza", scrisse Mori nelle sue memorie. Non si doveva sparare: i banditi dovevano essere privati dell'onore di una resistenza armata. "La gente si aspettava che facessimo interrogatori - ingiuriassimo e agissimo con violenza - e ce ne andassimo senza aver ottenuto alcun risultato", disse Mori al diplomatico americano R. Washburn: "Ma io avevo un'idea diversa. Dissi ai miei uomini di entrare nelle case dei criminali, dormire nei loro letti, bere il loro vino, mangiarele loro galline, uccidere il loro bestiame e venderne la carne ai contadini della zona a prezzo ridotto". Fu dato ordine di prendere ostaggi: come per le operazioni successive, sembra che gli obiettivi principali siano stati donne e bambini. Che le donne siano state maltrattate, come affermarono in seguito critici di Mori, non è certo. Sarebbe stato indubbiamente conforme allo spirito, se non alla lettera dell'impresa, perché scopo della cattura di ostaggi era far leva sul senso dell'onore dell'uomo nei confronti della moglie e della famiglia: così un pizzico di durezza non sarebbe stato inopportuno".

Dunque una violenza e dei metodi che erano accettabili solo in uno stato non più democratico, dove le garanzie per i cittadini erano considerate molto meno della necessità di assicurare banditi alla giustizia. Testimonianze autorevoli, inoltre, dicono che Mori, durante l'assedio di Gangi e molte altre volte in seguito, si servì dell'intermediazione di personaggi al confine della legalità per ottenere la resa dei latitanti. Nell'assedio di Gangi una parte importante ebbe ad esempio il barone Sgadari, grosso proprietario terriero da tempo in affari con i mafiosi ed ora pronto a tradirli in cambio dell'impunità personale.

Tali metodi furono perseguiti per anni: furono fatti migliaia di arresti, senza troppe preoccupazioni se nel mucchio finivano anche molti innocenti. Si procedeva all'arresto, ed alla condanna per associazione per delinquere, sulla base di un semplice sospetto, o della cosiddetta "notorietàmafiosa". In questo modo alcune correnti all'interno del partito fascista, riuscirono a far arrestare, con accuse spesso infondate, i propri avversari politici. Una delle vittime più illustri fu Alfredo Cucco (fascista della prima ora e già segretario del partito, dell'ala radicale del Fascismo, in contrasto con i latifondisti e la vecchia nobiltà palermitana) che fu accusato e fatto incarcerare proprio da coloro i quali, nel partito, invece volevano appoggiarsi a questa classe sociale. Dopo undici processi, l'innocenza di Cucco fu provata, ma la sua carriera politica era terminata da tempo.

I metodi brutali del prefetto Mori ebbero sicuri risultati in termini militari. Il 1927 viene ancor oggi ricordato come l'anno in cui furono arrestati più mafiosi (ma forse anche più innocenti accusati di esserlo). Moltissimi altri furono costretti a fuggire, per lo più "rifugiandosi" negli Stati Uniti, andando a rimpolpare la nascente mafia italo-americana, che troverà poi, com'è noto, negli anni Trenta, una grande occasione di crescita nel proibizionismo.

A fianco di questi positivi risultati polizieschi, la lotta alla mafia condotta dal Fascismo presenta alcune notevoli pecche:

1. La lotta antimafia fu usata a volte per fini poco limpidi. Fu lo stesso Mori a riconoscere, nelle sue memorie, che "La qualifica di mafioso venne spesso usata in perfetta malafede ed in ogni campo, compreso quello politico, come mezzo per compiere vendette, per sfogare rancori, per abbattere avversari" (citato da Lupo, p. 148).

2. Il Fascismo non unì alla lotta sul piano militare, alcun intervento di tipo sociale, facendo anzi dei passi indietro, soprattutto nelle campagne, riaffidando quasi interamente il potere ai latifondisti. Ha scritto uno dei massimi storici dell'Italia contemporanea, Denis Mack Smith: "Mori era amico dei latifondisti. [...] Dal 1927 gli agrari erano di nuovo al potere, e la Sicilia ne pagò a caro prezzo la riabilitazione; e gli anni Trenta furono caratterizzati da abbandono e declino" ("Introduzione" a Duggan, p. IX). Un dato può dare l'idea di cosa significò questo nuovo ordine sociale in Sicilia: dal 1928 al 1935 le paghe agricole, secondo le statistiche ufficiali, diminuirono del 28% (Comm. Antim., p. 66).

3. I metodi brutali di Mori crearono malcontento nella popolazione, che spesso fu tentata a schierarsi dalla parte dei mafiosi, di fronte a forze di polizia che apparivano quasi come invasori stranieri, senza rispetto delle più elementari regole di legalità. Leggiamo ancora Mack Smith: "Ironicamente, l'operato di Mori potrebbe aver rafforzato proprio quella diffidenza nei confronti dello Stato che, come il governo, era stato così desideroso di vincere".

4. Alcune ricostruzioni storiche sembrano indicare che anche il Fascismo non fu immune da compromessi con la mafia. La cosa pare ormai accertata per il Fascismo delle origini (Duggan, Lupo), ma alcuni indizi vi sono per supporre che anche dopo l'azione di Mori, in alcune zone, l'alleanza del Fascismo con i latifondisti condusse ad un quieto vivere dove, in realtà, i vecchi mafiosi ebbero un qualche ruolo (Lupo).

 

Lo sbarco degli alleati e il M.I.S.

Che la mafia, sconfitta sul piano militare, covasse in realtà sotto la cenere e mantenesse un suo controllo sulla società siciliana sembra confermato dalle vicende dell'estate del 1943, in occasione dello sbarco in Sicilia degli Alleati. La strategia militare che il Pentagono decise di attuare nel momento in cui si decise di aprire uno nuovo fronte contro i nazi-fascisti in Italia, fu quella di iniziare l'offensiva dalla Sicilia, sia per evidenti ragioni geografiche (per evitare l'accerchiamento da parte del nemico), sia perché si poteva costituire una testa di ponte in Sicilia proprio sfruttando la mafia.

E' normale che in guerra non si vada molto per il sottile. Così, la CIA contattò alcuni importanti boss mafiosi italo-americani in carcere negli Stati Uniti, e gli offrì un patto: la libertà in cambio di un appoggio al momento dello sbarco. Fu ciò che avvenne: alla fine della guerra molti mafiosi americani furono liberati ed espulsi dagli Stati Uniti come "indesiderabili", con il tacito accordo che sarebbero tornati in Italia. I casi più noti riguardarono i boss Lucky Luciano e Vito Genovese, il quale prestò addirittura servizio per il quartier generale alleato di Nola.

Contemporaneamente, gli Alleati affidarono molte cariche, nel governo provvisorio della Sicilia dopo lo sbarco, a noti mafiosi: Calogero Vizzini fu nominato sindaco di Villalba, Giuseppe Genco Russo divenne sindaco di Musumeli, Vincenzo Di Carlo fu nominato responsabile dell'Ufficio per la requisizione del grano, ecc. Ciò diede nuova e sicura autorità ai mafiosi, oltre a concrete possibilità di arricchimento e di accrescimento del loro potere.

In questo periodo, la mafia cercò di organizzare la sua presenza, anche politica, in Sicilia, contribuendo alla nascita del Movimento Indipendentista Siciliano (MIS), formazione politica che si prefiggeva l'indipendenza della Sicilia dal resto d'Italia e, in alcuni momenti, persino la stramba idea di far aderire la Sicilia agli Stati Uniti.

Il MIS non fu composto solo da mafiosi, ma ebbe diverse anime e diverse adesioni. Certo, però, la componente mafiosa, o vicina alla mafia, era molto importante. D'altro canto, i mafiosi potevano vantare, paradossalmente, di essere stati "perseguitati" dal Fascismo, facendosene un merito, come se il problema fosse stato politico e non criminale. Il MIS ebbe un sviluppo molto ampio dal 1943 al 1947, sia per il seguito popolare, sia perché "i responsabili del governo militare di occupazione affidarono il 90% delle amministrazioni a politici separatisti", come denunciava la prima relazione della Commissione parlamentare antimafia del 1972 (Tranfaglia, p. 4).

La crescita del movimento non si limitò, tuttavia, al piano legale ed elettorale. Il MIS costituì persino un suo esercito, l'EVIS (Esercito volontario di indipendenza siciliana), nel quale militarono banditi e mafiosi di grosso calibro. Capo dell'EVIS fu Salvatore Giuliano, e fu proprio questi a provocare la fine dell'esperienza separatista, con la strage di Portella della Ginestra, una località vicino Palermo, dove, "il 1 maggio 1947, si erano radunati, secondo una vecchia tradizione, i lavoratori della zona per celebrare la festa del lavoro. In quella occasione, erano pervenuti nella località molti gruppi di lavoratori con le proprie famiglie ed era iniziato da poco il discorso del segretario socialista della zona quando, improvvisamente, dalle alture circostanti partirono i primi colpi di mitra. Ci fu un improvviso clamore, quasi di gioia, perché i più ritenevano che si trattasse di spari festosi. Poi le prime urla e quindi un confuso fuggire tra lamenti e pianti." (il racconto è ancora tratto dalla Relazione della commissione antimafia del 1972: Tranfaglia, p. 32). Vi furono 11 morti e 35 feriti.

L'orrore suscitato in tutta Italia dalla strage provocò una reazione decisa da parte dello Stato, come spesso sarebbe accaduto anche in seguito. Tuttavia, si decise di trovare una soluzione al problema non proprio onorevole. Si distinsero nettamente le responsabilità del bandito Giuliano da quelle dei politici del MIS e dei mafiosi. Si contrattò con la mafia la fine di Giuliano, che fu tradito da un suo luogotenente (Gaspare Pisciotta), ucciso e consegnato alla polizia. Dapprima si cercò di far passare la versione che Giuliano fosse morto in uno scontro a fuoco, ma, grazie anche ad alcune inchieste giornalistiche, si venne infine a sapere la verità.

Quando, un paio di anni dopo, Pisciotta cominciò a far intendere di essere disposto a rivelare alcuni scottanti retroscena, fu trovato morto nel carcere dell'Ucciardone, a Palermo, per aver bevuto un caffè alla stricnina.

 

Mafia dei suoli urbani e nuova politica siciliana

Nel periodo del Dopoguerra, la società siciliana subì una profonda trasformazione, con una netta riduzione del peso dell'agricoltura nell'economia regionale. La mafia, com'è sua caratteristica, si adeguò a questa evoluzione, andando ad occupare, in posizione parassitaria, i nuovi campi socialmente ed economicamente predominanti: la crescita edilizia, il commercio (in particolare quello all'ingrosso dei prodotti agricoli) e il terziario pubblico. Per farlo dovette stringere con il potere politico relazioni più strette che nel passato, in quanto il ruolo dell'amministrazione pubblica nella nuova situazione economica era di molto cresciuto.

La mafia strinse così un patto di ferro con la classe politica dominante in Sicilia, che faceva capo soprattutto alla Democrazia Cristiana, ed in particolare alla corrente di Giovanni Gioia (leader Dc in Sicilia, e più volte ministro), e dei suoi luogotenenti Salvo Lima e Vito Ciancimino.

Sulla reale natura dei rapporti tra questo gruppo di potere e la mafia si fa spesso molta confusione, inaridendo il discorso nel decidere se questi politici erano del tutto dei mafiosi, o erano ingiustamente accusati. In realtà, le posizioni personali sono state diverse: solo per Ciancimino può dirsi storicamente e giudiziariamente accertata l'appartenenza diretta a Cosa Nostra, mentre per gli altri, in realtà, si deve parlare di un sistema di potere che con la mafia ha avuto rapporti di collaborazione ma in qualche caso anche di concorrenza o di conflitto. Il processo in corso sull'omicidio Lima probabilmente darà delle indicazioni più precise a riguardo.

Il discorso è innanzitutto economico. Il gruppo dirigente democristiano in Sicilia gestì una quantità di risorse e di opportunità economiche nella regione in grado di rivoluzionare l'intero assetto sociale dell'isola. In primo luogo si trattava dei finanziamenti pubblici alla Regione autonoma Sicilia, destinati a finanziare gli enti economici regionali per la gestione dell'agricoltura, delle foreste, degli acquedotti, dell'edilizia popolare, delle finanze, ecc. Chi controllava queste risorse acquisiva un potere straordinario, soprattutto perché controllava le assunzioni negli enti. Solo per l'amministrazione regionale e per gli enti ad essa legati furono assunte dal 1946 al 1963 circa 9.000 persone, di cui il 92,7% per chiamata diretta, e solo il rimanente per concorso, come sarebbe stato obbligatorio (Arlacchi, p. 92). A ciò vanno aggiunte le varie amministrazioni comunali e provinciali, l'amministrazione sanitaria, le banche, ecc.. E' facile capire ciò che questo comporta: solo chi è vicino ai politici "giusti" aveva la possibilità di essere assunto...

La seconda grossa opportunità economica gestita dal potere politico fu quella dell'espansione edilizia dei comuni, ed in particolare di Palermo. Il capoluogo regionale conobbe negli anni Cinquanta un'espansione straordinaria, dovuta specialmente alla crescita della burocrazia regionale e comunale. Ciò comportò la necessità di costruire interi nuovi quartieri, e l'opportunità di fare ottime speculazioni sui suoli urbani. Se infatti alcuni mafiosi, o altri amici dei politici, acquistavano dei terreni fino ad allora agricoli, ed in seguito un assessore compiacente trasformava quei terreni in edificabili, il profitto poteva essere enorme. Inoltre, in diversi quartieri, il comune di Palermo consentì di abbattere vecchie residenze, anche storicamente importanti, per costruire nuovi quartieri, il tutto per favorire imprenditori e proprietari vicini ai mafiosi. Questo periodo, consumatosi sotto le sindacature di Lima prima e di Ciancimino poi, fu chiamato "il sacco di Palermo". Un rapporto di polizia degli anni Sessanta mostrò come tra il 1957 e il 1963 l'80% delle licenze di costruzione del comune di Palermo furono rilasciate a soli cinque nominativi, prestanome dei più potenti gruppi mafiosi della città (Arlacchi, p. 94).

Oltre a ciò, tutti gli appalti per i servizi di pulizia, illuminazione, fognature del comune venivano affidati a personaggi di confine, legati alla mafia e vicini anche agli stessi politici, quali l'imprenditore Francesco Vassallo. Lo stesso Ciancimino, al momento del suo arresto, fu trovato in possesso di importanti partecipazioni in società che avevano rapporti privilegiati con il comune di Palermo, oltre ad essere titolare di conti correnti miliardari in Svizzera e in Canada.

Un caso clamoroso era quello delle esattorie fiscali della regione, affidate in concessione ad una società dei due cugini Nino e Ignazio Salvo, uomini d'onore della famiglia di Salemi, e molto vicini a Salvo Lima, a condizioni di estremo favore (essi trattenevano una percentuale vicina al 10% sulle tasse riscosse, contro una media nazionale del 3,3%). Di loro si parla ancora oggi, in quanto alcuni pentiti li indicano come tramite tra Cosa Nostra e Giulio Andreotti in occasione dell'omicidio di Mino Pecorelli, un giornalista scandalistico, vicino ai servizi segreti, del cui assassinio Andreotti è accusato di essere il mandante, anche se ancora il processo è solo agli inizi.

In questo periodo la mafia si dedica, oltre a questi molteplici intrecci con il potere politico, ad altre attività criminali, quali il contrabbando ed il racket, ovvero la richiesta di somme di denaro (il cosiddetto "pizzo") agli imprenditori sia commerciali che industriali, in cambio di protezione.

Quest'ultima funzione della mafia rimane ancora oggi come molto importante, e non tanto perché consente elevati profitti, quanto perché è forse l'attività che più di ogni altra consente alla mafia di affermare il proprio dominio su un territorio, nel quale non è possibile esercitare attività di alcun genere senza il consenso e la protezione delle famiglie.

 

La mafia imprenditrice

Questa situazione ebbe un'evoluzione improvvisa tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, a causa dell'aumento vertiginoso del giro d'affari mafioso, ottenuto grazie al traffico di droga. L'enorme fatturato di questa nuova attività criminale (si pensi che Cosa Nostra è riuscita a monopolizzare il traffico all'ingrosso dell'eroina in Europa e negli Stati Uniti) comportò notevoli cambiamenti nella vita delle cosche, e la necessità di nuovi rapporti anche con la finanza internazionale e con la politica di più alti livelli. Ciò ha comportato la nascita di una classe di mafiosi dediti al riciclaggio di denaro sporco in attività imprenditoriali lecite, o ai confini con la liceità.

Primo sbocco di questi imprenditori fu l'edilizia, ed in particolare quella legata ai lavori pubblici, dove la mafia poteva godere di importanti vantaggi concorrenziali, come abbiamo visto in altra occasione (vedi dispense su "Tangentopoli"). Per altro, tale attività, consentiva di accrescere il prestigio politico e l'effettivo controllo del territorio da parte della mafia. Probabilmente l'organizzazione della strage di Capace non sarebbe stata possibile se la mafia non fosse stata perfettamente padrona del territorio in quel tratto di autostrada, e non temesse affatto il controllo da parte degli organi statali competenti (dalla polizia stradale all'Anas...).

Altro importante ambito di attività è l'usura, nei confronti di imprenditori locali, i quali spesso finiscono per cedere le attività ai mafiosi, stretti in una spirale di debiti ad interessi impossibili da sostenere. Anche l'usura si avvantaggia dei rapporti politici, in particolari con gli amministratori "lottizzati" delle banche, che sono a volte fonti preziosa di informazione sulle finanze dei "clienti" degli usurai mafiosi, quando non indirizzano direttamente la clientela della banca verso queste forme "alternative" di credito.

Attualmente gli studiosi più accreditati (Centorrino, Arlacchi) calcolano che usura e lavori pubblici sono per la mafia siciliana fonti di reddito equivalenti al traffico di droga, mentre per la camorra napoletana a queste fonti va aggiunto il gioco d'azzardo (ad esempio la gestione del totonero), e per la 'ndrangheta i sequestri di persona.

 

La guerra di mafia negli anni Ottanta

Il passaggio dalla vecchia mafia alla mafia imprenditrice non fu incruento. Come sempre i regolamenti di conti e i processi di rinnovamento vennero raggiunti con il sangue. All'inizio degli anni Ottanta scoppiò infatti la grande guerra di mafia che porterà al potere il gruppo tutt'ora egemone: i Corleonesi di Totò Riina, in principio rappresentati in Commissione dal "Papa" della Mafia, Michele Greco, della famiglia di Ciaculli, località alle porte di Palermo.

La guerra fu condotta con una violenza inaudita. In seguito si disse che questa era una novità, che la vecchia mafia usava metodi meno violenti, e che la nuova mafia aveva perso il vecchio "senso dell'onore". A smentire questa versione stanno però i resoconti storici che risalgono fino al secolo scorso, e che da sempre narrano l'estrema violenza nella soluzione dei rapporti di forza tra le cosche. Anzi, è tradizione immutata nella mafia che l'affermazione personale avvenga sempre attraverso la violenza direttamente esercitata.

L'idea che a volte si ha dei capi mafiosi come "menti" raffinate, che vivono ad un altro livello rispetto agli esecutori dei loro voleri è del tutto sbagliata (Falcone, Arlacchi). Anzi, caratteristica peculiare della mafia, rispetto ad altre forme di criminalità di alto livello, è proprio questa identità tra mandanti ed esecutori, così che si diventa capimafia solo passando attraverso i crimini più efferati, e spesso sono gli stessi capi che partecipano direttamente alle azioni più importanti.

Alla guerra di mafia si associò anche una serie di "delitti eccellenti" che non aveva pari con la precedente storia di Cosa Nostra. Cosa era successo? Fino alla fine degli anni Settanta lo Stato aveva convissuto con la mafia in maniera piuttosto pacifica. Vi erano dirette connessioni tra potere politico e mafia, come abbiamo visto, ma vi era anche una certa tolleranza da parte della magistratura, delle forze di polizia, e persino della classe imprenditoriale nei confronti di un'associazione che garantiva una certa pace sociale, il controllo delle altre forme di criminalità, ed alla quale venivano lasciati in cambio ampi spazi d'azione.

Per svariate ragioni difficili da riassumere in poche righe, la società siciliana, sul finire degli anni Settanta, cominciò a ribellarsi a questo stato di fatto, e nella magistratura, nella società civile, e persino nella politica cominciarono a esserci voci contrarie alla mafia.

La prima reazione delle cosche fu quella di eliminare chiunque si opponesse seriamente al loro strapotere, approfittando anche del fatto che spesso queste persone erano isolate e poco protette negli stessi ambienti in cui vivevano. Iniziò così la stagione dei delitti eccellenti. Si cominciò nel 1979 con il giudice Cesare Terranova, appena tornato alla magistratura attiva dopo essere stato deputato per il PCI e membro della Commissione antimafia. Seguirono, tra i magistrati, gli omicidi di Gaetano Costa (1980), appena nominato procuratore a Palermo, e Rocco Chinnici (1983), capo dell'Ufficio istruzione di Palermo e diretto superiore di Falcone, al quale per primo aveva dato lo spazio necessario per le indagini antimafia. Tra i politici, nel 1980, di particolare significato fu l'omicidio di Piersanti Mattarella, democristiano, da poco nominato presidente della Regione Sicilia confidando nel fatto che il padre, Bernardo, aveva avuto nel passato "pacifici" rapporti con la mafia. Il cambiamento culturale che stava avvenendo in Sicilia passava però anche all'interno delle famiglie, ed il giovane Piersanti si diede subito da fare per isolare i comitati d'affari politico mafiosi nella Regione, pagando con la vita questa scelta. Ancora tra i politici, fu ucciso Pio La Torre (1982), segretario regionale del PCI, da sempre attivo nella lotta antimafia.

Anche le forze dell'ordine pagarono caramente il nuovo clima di opposizione alla mafia. Furono uccisi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano, gli ufficiali dei carabinieri Giuseppe Russo e Emanuele Basile, e i dirigenti di polizia Beppe Montana e Ninni Cassarà. Nel settembre 1982 fu ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con la sua giovane moglie, da 100 giorni nominato prefetto di Palermo, ed ancora in attesa di quei poteri speciali che aveva richiesto per combattere più efficacemente la mafia, e che il governo aspettò troppo a lungo a concedergli.

                

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dal 31/8/06: