Di Paolo Sylos Labini
Destra e sinistra;
conservatori e innovatori; gli utopisti sono gl’innovatori più ambiziosi. Le
utopie sono idee-guida, non progetti concreti.
Oggi si parla
molto di riformismo, senza però spiegarne il contenuto. Si è avuto uno
scontro sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, una questione, a
detta anche di molti industriali, che in sé non era molto importante, lo è
diventata per ragioni politiche - la destra al governo voleva impartire un
colpo di clava sulla testa dei sindacati; se mai occorreva legiferare sulle
garanzie dei lavoratori atipici, che ne sono largamente privi. Riforma della
pensioni: il discorso è in parte simile al precedente. Oggi è importante
contrastare con forza gli attacchi del governo Berlusconi alla scuola, alla
sanità, alla ricerca. Dobbiamo pensare fin da ora a "costruire il nuovo".
Mi pare però che
alla sinistra italiana manchi il coraggio dell'utopia. Grazie a quel
coraggio la sinistra dei paesi scandinavi negli anni Trenta e, anche più
ambiziosamente, la sinistra inglese dopo la seconda guerra mondiale si
posero il grande obiettivo dello stato sociale e in Germania i
socialdemocratici si posero anche l'obiettivo della cogestione delle grandi
imprese. Eppure oggi grandi obiettivi non mancherebbero. È vero, per noi il
problema preliminare è di superare la vergogna del governo Berlusconi. Ma
bisogna fin da ora pensare a quando avremo ripreso il cammino dell'onestà
civile e della dignità. Oggi, dopo i recenti segni di squilibrio mentale - i
giudici matti, i giornalisti invidiosi - non è più prematuro riflettere su
un futuro senza Berlusconi.
L'utopia sociale
la troviamo nelle forme più diverse dall'Illuminismo in poi. La troviamo
negli utopisti francesi e inglesi, in John Stuart Mill, che sviluppa,
arricchendole, idee di Smith e di Bentham.
La grande utopia che ha segnato tutto il secolo scorso è stata quella di
Marx.
L'analisi
riguardava i paesi avanzati, ma lo stesso Marx, dopo molte incertezze, aveva
sostenuto che potesse avere un ruolo importante nei paesi arretrati, come la
Russia; nella seconda guerra mondiale anche paesi non arretrati dell'Europa
orientale entrarono nell'orbita russa. Nell'analisi di Marx troviamo tre
errori madornali: il proletariato destinato a diventare la "stragrande
maggioranza" della popolazione, la sua ineluttabile miseria crescente e la
teoria del valore lavoro, che non regge. La dottrina marxista divenne la
bandiera della lotta all'imperialismo americano e la base di penosi conati,
in paesi arretrati, di pianificazione e di determinazione autoritaria dei
prezzi per bruciare le tappe dello sviluppo. Marx raccomandava ai comunisti
di adottare anche i mezzi più barbari per far trionfare la rivoluzione; ma i
mezzi barbari necessariamente imbarbariscono anche i fini. L'utopia marxista
si è conclusa con una catastrofe immane.
Fra gli utopisti
del nostro tempo troviamo l'inglese premio Nobel James Meade. Possiamo
includere anche Carla Ravaioli, che ha scritto vari libri, il più recente
dei quali, pubblicato dagli Editori Riuniti, ha un titolo chiaramente
utopistico "Un mondo diverso è necessario"; con una certa presunzione, fra
gli utopisti mi ci metto anch'io.
Primo punto:
la crescita economica. Andando contro la saggezza convenzionale, di destra e
di sinistra, occorre mettere all'ordine del giorno l'obiettivo della
crescita zero, obiettivo che non è affatto in contrasto con quello di
abolire la miseria. La crescita economica ha sempre portato con sé costi
umani di ogni genere; oggi sta originando problemi ambientali sempre più
gravi. La crescita era stata raccomandata da Adamo Smith al fine di
eliminare gradualmente la miseria, che porta al degrado dell'uomo. L'idea,
in Smith appena accennata, era che oltre una soglia critica la crescita
poteva rallentare e alla fine arrestarsi. È la tesi sostenuta in modo chiaro
da John Stuart Mill.
Ci sono però due
problemi: l'eliminazione della miseria non è un fatto automatico, occorre
una politica fiscale adeguata. Nei paesi industrializzati ciò in buona
misura è avvenuto, attraverso i trasferimenti di bilancio volti ad attuare
lo stato sociale. Nei paesi del Nord Europa il processo è pressoché
compiuto; è lontano dal compimento nel più sviluppato dei paesi
capitalistici, gli Stati Uniti, anche per il problema dei neri. Il secondo
problema sta in ciò, che la crescita zero del reddito non implica la
crescita zero della produttività, il cui aumento farebbe crescere i
disoccupati. La via d'uscita sta in una riduzione delle ore lavorate, un
processo che va avanti da almeno un secolo e mezzo, ma che occorre gestire
con intelligenza e gradualità per evitare effetti opposti a quelli
desiderati. Alla crescita zero del Pil può accompagnarsi l'aumento degli
investimenti volti a ridurre progressivamente l'inquinamento e la crescita
di attività culturali, che non incidono sulla produttività; né, preservato
l'ambiente, sorgono problemi se il di più di reddito serve ad aiutare i
paesi arretrati.
Nel corso del
tempo la crescita zero può affermarsi man mano che viene abbandonato
l'ideale tipicamente piccolo-borghese di rincorrere a tutti i costi i
soldini, un ideale che oggi domina il comportamento delle classi medie e di
un'ampia fetta della classe operaia - sempre più minoranza e sempre meno
classe. A lungo andare questa ossessione, che risente del tempo in cui la
povertà era la norma, probabilmente si andrà dissolvendo e sarà sostituita
dall'aspirazione a lavori gratificanti e da altri ideali, fra cui sembra di
grande rilievo quello di aiutare i paesi della fame. Non occorrono aiuti
finanziari, fonte di sprechi e di corruzione; occorrono invece aiuti reali
creando centri per la lotta all'analfabetismo, per la sanità e per la
formazione di esperti agrari e industriali. Questi centri dovrebbero
avvalersi della collaborazione di giovani volontari: già ce ne sono, ma
bisogna farli crescere di numero e organizzarli molto più efficacemente.
Per tante ragioni
i paesi industrializzati hanno interesse ad aiutare i paesi della fame,
anche per i problemi ambientali, che in primo luogo dipendono dalle
emissioni gassose provenienti dai paesi industrializzati; ma dipendono anche
dai paesi in via d'industrializzazione e, nei paesi della fame, da processi
di deforestazione e desertificazione. Questa è causata da diverse spinte; la
più sistematica è data da popolazioni in rapida crescita: i contadini, non
essendo capaci, per la loro ignoranza, di accrescere la produttività,
allargano le aree coltivabili tagliando arbusti ed alberi, provocando così
una deforestazione che prelude alla desertificazione, processo che
gradualmente incide sull'ambiente del mondo. È necessario allevare esperti
che insegnino come accrescere la produttività agraria. Al tempo stesso
occorre agire sulla natalità, ben sapendo che gli ostacoli sono tre:
l'analfabetismo delle donne, i divieti della Chiesa cattolica e, per vari
intellettuali di sinistra, gli strascichi della dottrina di Marx, che
detestava Malthus e le sue idee sulla popolazione, Quanto ai divieti
religiosi, ricordo che le Chiese protestanti hanno abolito la condanna del
controllo delle nascite da meno di un secolo e la Chiesa cattolica stava per
farlo pochi decenni fa.
I paesi del Terzo
mondo che hanno avviato processi importanti di industrializzazione - fra cui
sono due giganti, Cina e India - sembra non abbiano bisogno di aiuti: questi
paesi sono spontaneamente aiutati dalle imprese dei paesi sviluppati, che
trasferiscono stabilimenti e uffici attratti dalle basse remunerazioni e
dall'idea di creare teste di ponte commerciali.
La questione
dell'ambiente deve essere ricollegata non solo ai problemi della
desertificazione, ma, più in generale, alla grande questione dei paesi
arretrati, specialmente di quelli che hanno appena avviato
l'industrializzazione - ciò che Carla Ravaioli nel suo libro fa. Non bastano
affatto gli accordi di Kyoto, peraltro disattesi dal più potente paese
capitalistico. E c'è la questione, enorme, delle fonti di energia non
inquinanti, a cominciare dalla sostituzione degli idrocarburi con
l'idrogeno. Bisogna avviare subito un programma di drastici risparmi
energetici, come quelli raccomandati da Tullio Regge e da Maurizio Pallante,
ed occorre adoperarsi per far stanziare fondi per la ricerca e organizzarsi
per contrastare i potenti interessi ostili. Le utopie più affascinanti
riguardano la qualità del lavoro. Nella Bibbia è scritto "Ti guadagnerai il
pane col sudore della fronte". Oggi nei paesi ricchi di norma ciò non è più
vero; oggi in tanti casi il lavoro non costa più fatica fisica, ma è
monotono e ripetitivo - questo è il problema. La monotonia può essere
contrastata dalla creatività: se chi lavora si sente partecipe delle
operazioni produttive e non un mero esecutore, il suo lavoro diviene
gratificante. Per Adamo Smith lavori particolarmente gratificanti sono
compensati con retribuzioni più basse, una parte della retribuzione essendo
data dalla soddisfazione che il lavoro stesso può procurare. Diventano
allora rilevanti i diversi modi di partecipazione dei lavoratori alla
gestione delle imprese - sono diversi in relazione alle dimensioni delle
imprese ed alle attività svolte. Oltre alla partecipazione vera e propria
alla gestione, abbiamo forme di partecipazione alla produttività, ai
profitti, alla proprietà delle azioni. Tutte le forme di partecipazione
riducono i rischi di abusi e di imbrogli dei manager, che abbiamo visto
attuati di recente in America. Nelle piccole imprese ancor più che nelle
grandi conta la personalità dell'imprenditore; e ci sono molti imprenditori
che sono anche leader, ossia hanno la capacità di guidare, animare, motivare
gli uomini, indurli ad amare il lavoro che svolgono, sostiene un altro
utopista del nostro tempo, Giorgio Fuà. La partecipazione dei lavoratori
all'attività dell'impresa deve includere anche le innovazioni organizzative
e tecnologiche, che conviene sollecitare coi mezzi più diversi. La ricerca
deve essere combinata sempre più strettamente con la produzione. In questo
quadro va considerata la riforma dei distretti industriali, sulla quale
insisto da anni. Ogni distretto dovrebbe essere dotato di uno sportello
"attivo" - un ufficio comune organizzato dalle Camere di commercio d'intesa
con gli enti locali, al quale le imprese potrebbero delegare tutte le
incombenze fiscali e burocratiche; il distretto dovrebbe disporre di un
organismo per la ricerca applicata, creato d'intesa con una Università e col
CNR. Il distretto dovrebbe fornire quei servizi collaterali capaci di
surrogare le economie interne; ciò farebbe superare alle piccole imprese i
limiti del "nanismo". Conviene andare oltre l'economia creando in ogni
distretto una casa della cultura, per dibattiti e conferenze, e un piccolo
auditorium. Deliberata promozione di lavori gratificanti, anche con leggi e
con l'azione dei sindacati; sviluppo della ricerca, che promuove lavori
gratificanti; valorizzazione sistematica delle idee innovative che gli
stessi lavoratori possono fornire ai manager; valorizzazione degli
imprenditori-leader; creazione dei distretti integrati: sono tutti mezzi per
moltiplicare le mansioni gratificanti e quindi non alienanti.
L'alienazione,
individuata da Adamo Smith ben prima di Marx, ha finora contrassegnato il
capitalismo. In prospettiva la fine dell'alienazione può significare la fine
del capitalismo come lo abbiamo finora conosciuto.
Pubblicato su l’Unità
del 8 settembre2003 |