CIA: LA MADRINA DELLA COCAINA E DELL’EROINA
La «guerra alle droghe», proclamata da
Ronald Reagan all’inizio degli anni Ottanta, per quanto
assurda, sembrava giustificarsi alla luce della tragedia
del crack, che distruggeva letteralmente interi pezzi
delle maggiori città americane, oltre alle vite di chi
vi abitava. La crudeltà delle droghe, fino ad allora
riscontrabile negli effetti dell’eroinomania, diventava
incontestabile di fronte ai danni distruttivi del crack.
In realtà a sponsorizzare il crack era allora la CIA,
sotto la direzione dello stesso Reagan. Già si sapeva,
fin dallo scandalo dell’Irangate, che la CIA, e più
particolarmente la cellula di Oliver North, direttamente
connessa alla Casa Bianca, aveva finanziato i ribelli
anticomunisti affidando loro una parte del flusso della
cocaina che, dalla Colombia, irrigava gli Stati Uniti.
Il rapporto della commissione Kerry (1989) non lascia
alcun dubbio al riguardo. Nel 1996, Gary Webb pubblicò
su un quotidiano della Silicon Valley, il «San José
Mercury News», una serie di articoli che riferivano dei
risultati di un anno di ricerche: The Dark Alliance. Per
portare a termine questa inchiesta, realizzata con la
collaborazione del corrispondente del suo giornale in
Nicaragua, Webb aveva viaggiato e intervistato molti
personaggi, ma si era basato soprattutto sulle carte
giudiziarie pubblicate a proposito di affari in corso o
recenti. Fu così che si apprese come la CIA proteggesse
una rete di trafficanti nicaraguensi che faceva arrivare
la cocaina dalla Colombia a South-Central, Los Angeles.
Essi rifornivano in modo particolare Freeway Rick,
leggendario DEAler che fece fortuna col boom del crack,
oggi in prigione con una condanna all’ergastolo.
L’ondata di crack era un fenomeno di marketing che aveva
lo scopo di smaltire rapidamente grossi quantitativi di
coca, destinandola non più ai ricchi, ma ai poveri, un
enorme mercato conquistato a passo di carica. Ciò
coincide con gli anni in cui Reagan era alle prese con
il veto del Congresso usa, che gli proibiva di
sovvenzionare i Contras in Nicaragua. E con gli anni
della «guerra alle droghe». Da una parte venivano
arrestati a tutto spiano – come accade tuttora – i neri
e gli ispanici dei ghetti, il più delle volte per
infrazioni alle leggi sugli stupefacenti. Dall’altra li
si riforniva della roba che avrebbe fatto loro
commettere i crimini per cui li si imprigionava! Questo
incredibile cinismo merita attenzione. Passiamo la
parola a Gary Webb e Michael Levine. Ex poliziotto della
«narcotici», Levine è anche testimone a carico nella
grande istruttoria informale che il popolo ha aperto
contro lo Stato criminale. Sua è la chiusa: «ho passato
praticamente tutta la mia vita di adulto all’interno di
questo sistema, credendo fermamente che il fine
giustificasse i mezzi. Sono arrivato a imparare che
questo modo di pensare è quanto di peggio ci possa
capitare; è proprio questo modo di pensare che rischia
di distruggere le nostre libertà». E lungo il percorso,
quante vite distrutte?
The Dark Alliance
18, 19 e
20 agosto 1996: il «San José Mercury
News» pubblica una serie di tre articoli
di Gary Webb. Nessun quotidiano
nazionale li riprende. Ma le radio
locali della comunità nera, sì. Lo
splendido sito internet che il «San José
Mercury News» dedica a The Dark Alliance,
in cui, per la prima volta nella storia
del giornalismo, i testi degli articoli
vengono pubblicati con le relative
fonti, in immagini e sonoro, viene
assalito dalle connessioni... fino a un
milione al giorno! Bisogna aspettare
ottobre perché la stampa reagisca! Il
«Washington Post» apre il fuoco per
tentare di smentire Gary Webb. Poi è la
volta del «New York Times», ma è al «Los
Angeles Times» che spetta la
pubblicazione
del
pezzo forte in
questa
campagna: dal 20 al 22 ottobre, una
serie di tre articoli lunghi come quelli
di Gary Webb. La denuncia unanime della
stampa benpensante induce il
caporedattore del «San José Mercury
News», Jeremy Ceppo, a ritrattare. In
seguito, Gary Webb va in pensione, e
pubblica nel 1998, presso le edizioni
Seven Stories, il suo libro The Dark
Alliance.
Se lo straordinario sito internet The
Dark Alliance del «San José Mercury
News» è stato chiuso, molti altri siti
internet di controinformazione
forniscono oggi una documentazione di
ottima qualità intorno a questo dossier.
-
Michael Levine,
il dissidente che la DEA ha bandito
Michael
Levine ha alle spalle una carriera di
venticinque anni come agente infiltrato
al servizio di quattro agenzie federali
americane nei cinque continenti. Egli è
diventato il più noto e aspro fra i
critici della Drug Enforcement
Administration (DEA). Dal Triangolo
d’Oro alle Ande, tutti i suoi sforzi per
mettere le mani sui pezzi grossi del
traffico sono stati, come ci spiegherà,
sabotati dai burocrati della DEA e dalle
pressioni della CIA. La storia delle sue
operazioni contro la mafia boliviana
della cocaina è raccontata
dettagliatamente nei suoi libri Deep
Cover (Delacorte, 1990) e The Big White
Lie. Il suo ultimo libro, Triangle of
death (Dell, 1996), scritto in
collaborazione con la moglie, Laura
Kavanau, è un giallo basato sulla sua
esperienza professionale. È anche ospite
fisso della trasmissione radiofonica
settimanale Expert Witness, in onda
sulla radio newyorkese wbai-fm, nei cui
studi è stata realizzata questa
intervista.
«High
Times» – Perché un ex
agente della DEA
interviene in una radio?
M. Levine –
Perché si assiste alla
totale abdicazione dei
media, che non svolgono
più il loro ruolo, per
quanto minimo, di
controllo. Io ero il
funzionario americano di
grado più elevato nel
cono Sud. Ebbene, voi
non potete immaginare
peggiori tradimenti
verso il popolo
americano di quelli cui
mi è toccato di
assistere! E voglio
parlare del sostegno
fornito dalla CIA e dai
suoi collaboratori alla
presa del potere in
Bolivia da parte di
narcotrafficanti e
ricercati nazisti.
Ci vuole parlare del
1980 quando, dopo il
«colpo di Stato della
cocaina», l’economia
sudamericana della droga
è diventata un’industria
di grandi proporzioni...
È esatto. Ciò che voglio
dire è che tutto si
svolgeva sotto gli occhi
dei mass media. «Newsweek»
aveva pubblicato un
articolo sulla
situazione boliviana
talmente lontano dalla
realtà, che ho fatto la
più grande stupidata
della mia vita inviando
alla redazione una
lettera con intestazione
dell’ambasciata in cui
dicevo: «Voi siete
totalmente inseriti
dentro il programma, la
verità è che la CIA ci
ha tradito».
Dov’è stato l’errore?
I giornalisti non mi
hanno mai chiamato e io
mi sono ritrovato con
una inchiesta interna
sul groppone. E chi si è
reso conto che qualcosa
andava veramente storto
nella copertura degli
avvenimenti in Bolivia?
Sentite questa! «High
Times», articolo di Dean
Latimer (agosto 1981).
Ve lo riassumo. Diceva,
per sommi capi: «Il
governo ha lavorato di
lima fin nei dettagli di
questo colpo di Stato, e
non cerca nemmeno di
metterlo al suo attivo.
C’è qualcosa che non
torna».
All’affaire Roberto
Suarez, che mi hanno
sabotato in ogni modo. E
«High Times» è stato il
solo organo di stampa ad
aver fiutato la pista
giusta. Se avessi
scritto a loro invece
che a «Newsweek»,
avrebbero svelato il
caso.
Riprendiamo
dall’inizio. Com’è
entrato nella DEA?
Quand’ero nella polizia
militare, per una storia
del cazzo, un giorno un
tipo mi ha piantato una
pistola nello stomaco e
ha premuto il grilletto.
Il colpo non è partito.
Questa vicenda ha
provocato in me un
profondo cambiamento. Ho
voluto vivere a cento
all’ora. Pensavo allora
che avrei potuto
diventare il James Bond
degli agenti infiltrati.
Ero bravo nelle
infiltrazioni. Parlavo
correntemente lo
spagnolo. Conoscevo la
strada. Da giovane ero
stato un teppista,
arrestato due volte
prima dei sedici anni.
Ora, ero pagato per
andare a zonzo nel Bronx
come da ragazzino. Nel
1965, ero uno dei pochi,
insieme a quelli del
fisco, che potevano
comprare dei numeri
della bolita, la
lotteria clandestina
ispanica. Potevo
spacciarmi per chi
volevo. Facevo tutto
questo senza un vero
scopo, giusto come un
gioco che poteva
offrirmi una dose di
brivido. Fino al momento
in cui scopro che
proprio mio fratello,
David, era scimmiato di
eroina.
Di colpo ho creduto di
vedere il puzzle nelle
sue concatenazioni. Io
ci credevo, sapete, al
discorso ufficiale. Per
me, lo spacciatore di
droga era davvero il
peggio del peggio. E mi
sono messo in testa che
se m’ero salvato era
solo per uno scopo:
entrare nell’antidroga.
Lei era dunque nella
DEA fin dalla creazione
dell’agenzia?
Sì. Nel 1970 sono stato
trasferito dall’ufficio
ATF (1) alla brigata di
investigazione sulle
droghe pesanti alle
dogane. Ed è là che per
la prima volta ho avuto
a che fare con la CIA. È
stato in occasione del
processo Governo degli
Stati Uniti vs.
Liang-Sae Tiw et al. Il
caso iniziò il 4 luglio
1971, con un arresto
all’aeroporto Kennedy di
New York. Il tipo
arrestato è diventato un
mio informatore. Faceva
venire l’eroina da
Bangkok, in Thailandia.
Abbiamo messo le mani
sui suoi associati, che
organizzavano la
distribuzione su scala
nazionale, in una palude
della Florida. E sono
andato a infiltrarmi in
Thailandia per
incontrare il loro
contatto a Bangkok. I
signori mi adoravano, ci
tenevano a portarmi con
loro fino a Chiang Mai.
Ma le cose cominciano ad
andar male. Io non
riesco a ricevere i
fondi per l’operazione:
seguo questo tipo della
mafia, che mente come un
cavadenti, e loro
cominciano seriamente a
pensare di sopprimermi.
Da parte mia, inizio a
dare in escandescenze
con i miei superiori.
Risultato, a mezzanotte
mi portano
all’ambasciata degli
Stati Uniti. Vi incontro
il capo delle dogane
americane, Joey Jenkins,
e un tipo calvo in
camicia guayabera che mi
dice: «Lei non andrà a
Chiang Mai». Dopo che se
n’è andato, Jenkins si
gira verso di me e mi
mormora all’orecchio:
«Quel tipo è della CIA».
Allora, eseguendo gli
ordini, arresto quello
con cui facevo affari e
chiudo il caso. Ho
perfino ricevuto una
medaglia speciale dal
Dipartimento del Tesoro.
Ma non sono riuscito né
ad andare a Chiang Mai
né ad arrestare i
fornitori. Parecchi anni
dopo, mentre lavoravo
per conto della DEA, che
aveva in carico le
fazioni tribali del
Triangolo d’Oro, ne ho
di nuovo sentito
parlare. Era proprio
questa rete, che mi si
era impedito
d’intaccare, a
introdurre l’eroina
negli Stati Uniti
nascondendola dentro i
cadaveri dei soldati
rimpatriati. Ma
all’epoca, tutto ciò che
sapevo è che mi si
impediva di realizzare
il più grosso sequestro
di eroina di tutti i
tempi.
Nel 1973 sono stato
incorporato nella DEA,
subito dopo la sua
istituzione. Quando mi
sono di nuovo trovato in
contrasto con la CIA,
ero in Sudamerica. Ed è
là che ho veramente
flippato correndo rischi
enormi.
Nel frattempo suo
fratello si è suicidato.
Sì, nel 1977. Lasciando
scritto: «Non posso più
sopportare le droghe».
Aveva 34 anni. Il mio
desiderio di azione si è
decuplicato, del tipo:
«Gliela faccio vedere io
a quei figli di
puttana».
In Sudamerica il suo
bersaglio era Roberto
Suarez, il «re della
cocaina».
Sì, anche lui mi
adorava. Io gli ho
parlato solo al
telefono, ma lui mi dava
del «comandante», lo
stesso titolo attribuito
a lui. Fu arrestato anni
dopo, ma la mia
operazione era stata
sabotata. La nostra
finta famiglia mafiosa
si era installata in una
casa a Miami. Si fingeva
di avere un pacco di
grana, e non si aveva un
soldo. Teatrino. Il
nostro budget per
l’intera operazione
ammontava a 2500
dollari, subito finiti.
In un rapporto della
DEA (Operation Hun: A
Chronology) sta scritto
che esistevano prove
sufficienti per
incolpare l’intero
governo boliviano. E la
CIA ha bloccato tutto
perché metteva in
pericolo i loro
programmi. Nel rapporto,
si legge: «un’altra
agenzia», il solito
eufemismo.
Io mi spacciavo per un
compare mezzo siciliano
mezzo portoricano,
Miguel Luis Garcia, e
loro hanno abboccato.
Pagai 9 milioni di
dollari a José Gasser e
Alfredo «Gutucci»
Gutierrez attraverso una
banca di Miami, mentre i
nostri aerei sorvolavano
la giungla boliviana, e
i nostri ragazzi misero
le mani su una mezza
tonnellata di pasta di
coca. Regolai i dettagli
del contratto con
Roberto Suarez dopo
Buenos Aires e saltai su
un aereo per Miami. Gli
si misero sotto gli
occhi i 9 milioni in
contante. Il tutto non
durò più di due ore.
Li si arrestò, ma
vennero immediatamente
rilasciati. Tutte le
accuse contro Gasser
furono respinte da
Michael Sullivan,
giudice federale di
Miami. Gutierrez,
rilasciato sotto
cauzione, riparò in
Bolivia e ordinò di
uccidermi. Sullivan
sosteneva che non si
poteva vincere.
Stronzate. Gli dissi:
«Spesso abbiamo in mano
molto meno contro la
maggior parte degli
americani attualmente in
prigione». Cominciai a
definirla «un’ostruzione
da parte del
Dipartimento della
Giustizia». L’operazione
Hun si chiuse con la mia
messa sotto inchiesta
interna e l’espulsione
dall’Argentina. A Buenos
Aires subii un attentato
da parte di gente al
servizio della CIA,
degli assassini
professionisti
argentini. Assassini di
massa. Boia a
ripetizione. Chiamateli
come volete.
Quelli dei
desaparecidos?
Sì. Mi è difficile dirvi
quanto li odio quei
signori là. Ma io ero un
miracolato, non un nazi.
Così, già prima di
sostenere la Contra in
Nicaragua, la CIA
proteggeva i cartelli
sudamericani?
Ho cercato di appurarlo.
Ho scoperto che il padre
di José Gasser era stato
uno dei fondatori della
Lega anticomunista
mondiale. E che era in
contatto con la CIA
dall’inizio degli anni
Sessanta. Per il mio
primo colpo portato a
segno in Bolivia, che
«Penthouse» ha definito
la più grande truffa di
tutti i tempi, avevamo
bisogno dell’aiuto del
governo boliviano. A
quell’epoca, nel 1980,
era al potere Lidia
Gueiler. Era alla testa
di un governo liberale,
proibizionista convinta,
e ci ha aiutato. Tanto
che i trafficanti sono
poi andati a raccontare
ai loro corrispondenti
della CIA che Lidia
Gueiler era una
militante di sinistra.
Ecco perché il governo
degli Stati Uniti ha
sostenuto la
«rivoluzione» in
Bolivia: facendo venire
degli argentini,
sbloccando fondi segreti
ecc. Tutti sanno che i
trafficanti di droga
sono capitalisti. Sono
sempre anticomunisti!
[Risate].
Chi finì in prigione,
dopo l’operazione Hun?
M.L.: Il pesce più
grosso, «Papo» Mejia,
uno degli assassini più
dementi mai nati in
Colombia. E quella
bellissima donna, Sonia
Atala, la «Regina della
cocaina» boliviana.
Vendeva più cocaina lei
di qualunque altro
essere vivente.
Disponeva di truppe
scelte, e un potere di
morte su chiunque,
dappertutto e sempre.
Nel 1980, di fatto, salì
al potere. Nel 1982
rimasi completamente
paralizzato dalle
inchieste e dagli
attentati contro di me.
Mi trasferirono al
Quartier Generale della
DEA. Venni pedinato, il
mio telefono fu messo
sotto controllo. Tappa
successiva, mi
domandarono se ero
pronto ad accettare una
missione di
infiltrazione. Avrei
fatto patti col diavolo
pur di riuscire ad
allontanarmi dal
Quartier Generale della
DEA. Domandai: «Di che
affare si tratta?», e mi
risposero: «Quella
donna, Sonia Atala.
Vogliamo che tu ci vada
a vivere insieme». Aveva
deciso di collaborare.
Il suo potere era
diventato tale che il
«ministro della cocaina»
della Bolivia, Luis Arce
Gomez (cugino di Roberto
Suarez), l’aveva presa
di mira e cercava di
toglierla di mezzo. Dopo
aver incassato due
milioni di dollari da
Papo Mejia, i suoi
fornitori rifiutarono di
effettuare la consegna.
Papo le disse: «O mi
restituisci i soldi, o
ti uccido tutta la
famiglia». Adesso erano
i colombiani, oltre ai
boliviani, a volerle
fare la pelle. Lei andò
direttamente alla DEA. E
si pensò a me come suo
compagno.
C’installammo a Tucson,
in Arizona, recitando la
parte dell’uomo e la sua
amichetta. Avevamo
intenzione di cominciare
ad acquistare, e quindi
di mettere le mani su
ciascuno dei colombiani
e dei boliviani che
avessero voluto fare
affari con noi. I miei
dossier contro Roberto
Suarez, Arce Gomez,
Klaus Barbie e tutta la
cricca s’ispessirono. Il
governo cominciò a fare
il difficile quando si
trattò di scegliere chi
avrebbe dovuto essere
incolpato. Ma almeno
Papo ce l’abbiamo, ora
sconta i suoi
trentacinque anni. Sonia
è rientrata in Bolivia e
ha recuperato tutti i
suoi beni.
Cosa intende per
«truppe scelte naziste»
a sua disposizione?
Intendo dire mercenari
europei addestrati da
Klaus Barbie («il
macellaio di Lione»,
ufficiale della Gestapo
ricercato). La sua villa
a Santa Cruz, in
Bolivia, era
soprannominata la «casa
della tortura». Aveva
spesse mura e tutto
l’equipaggiamento
necessario.
E lei abitava con
quella donna a Tucson?
Sì. Allora lei vendeva
droga. Si è fatta
pizzicare mentre vendeva
a due infiltrati della
DEA, due agenti del
Texas, che sono stati
obbligati a non
arrestarla. È tutto
scritto nero su bianco
in The Big White Lie. I
nomi, le date, i luoghi
e i momenti.è
Ci ha fatto l’amore?
No. Potevano sottopormi
in ogni istante alla
macchina della verità..
L’operazione Trifecta
fu il vostro tentativo
successivo per far
cadere la mafia
colombiana?
Esatto. Il nostro
obiettivo era la
Corporacion,
organizzazione nata
dalla rivoluzione. Noi
avevamo anche preso di
mira l’intero governo
messicano, inclusa
l’équipe del futuro
presidente Carlos
Salinas. E, una volta di
più, dovevamo renderci
conto che il
Dipartimento di
Giustizia faceva tutto
il possibile per
insabbiare la faccenda.
Fino a far sì che il
ministro della
Giustizia, Edwin Meese
chiamasse il suo collega
messicano per
avvertirlo!
Ancora una volta,
perché?
Il futuro presidente,
Salinas, assicurava ai
nostri politici
l’appoggio al NAFTA (2).
Nello stesso tempo, i
suoi subordinati
raccontavano a me, «Luis
Miguel Garcia», padrino
di mafia mezzo
siciliano, che una volta
al potere Salinas, il
Messico si sarebbe
spalancato al traffico.
Ed è andata proprio
così.
Esattamente! E tutto
questo è disponibile in
un video. Ma se gli
americani avessero
saputo del nocciolo
della faccenda, niente
nafta!
Avete comunque
arrestato il colonnello
Jorge Carranza, figlio
del fondatore del
Messico moderno.
Esatto, il figlio di
Venustiano Carranza, il
George Washington
messicano! Stava seduto
davanti a me in alta
uniforme, e mi
assicurava che avrei
potuto far cadere il
governo. E intanto il
video filmava.
E che ne è stato di
tutta quella gente?
Sono tutti liberi.
Carranza è stato assolto
in appello. Io ho
scritto un memoriale che
racconta come il governo
abbia fatto di tutto per
demolire l’affaire. Se
mi si fosse lasciato
andare avanti, avrei
incontrato i veri
padrini della
Corporacion, in
particolare il ministro
della Difesa messicano,
Arevalo Guardoqui. Mi
era stato combinato un
appuntamento con lui,
sempre sotto l’occhio
della telecamera!
Perché non è successo
niente?
Bisogna chiederlo a
loro. Io sono andato
alla trasmissione di
McNeil e Lehrer, e il
vero capo della DEA,
Terry Burke, si è
rifiutato di rispondere
in onda alle mie accuse.
Ha detto: «Voi capite,
questo ragazzo è
implicato in un affare
commerciale», un
riferimento al mio
contratto editoriale,
probabilmente.
Oggi, Luis Arce Gomez
e Roberto Suarez sono
entrambi in prigione.
Sì. Arce Gomez negli USA
e Roberto Suarez in
Bolivia. Se si può
chiamare quella una
prigione! Vive nel
lusso.
Nel suo romanzo,
Triangle of Death,
molti personaggi sono
riconoscibili, li si è
già incontrati in altri
suoi libri.
Il fatto è che non si
tratta veramente di
immaginazione. Il
Triangolo della morte è
il vero nome
dell’organizzazione
creata da un ex capo
della Gestapo, Augusto
Ricord. Costui è stato
condannato a morte in
contumacia in Francia.
Metteva in atto
operazioni in Paraguay
col sostegno della CIA.
Volete una prova della
potenza di
quest’organizzazione?
Un’inchiesta delle
dogane, iniziata con una
partita di eroina
ordinata dalla mafia
italiana al Triangolo
della morte, si concluse
con incriminazioni in
tutto il mondo. Ma il
Paraguay si rifiutò
fermamente di consegnare
Augusto Ricord, finché
Nixon non minacciò
un’invasione. Allora
cedette. La nostra prima
reazione fu di farne
dono alla Francia. Ma
non lo volevano! Ci
dissero: «L’avete voi,
tenetevelo!».
Incriminato negli USA e
condannato a una pena
detentiva, nel giro di
due anni è stato
rilasciato. È rientrato
in Paraguay ed è morto
in libertà.
Avete dunque le prove
di tutto, perché allora
farne un romanzo?
Nessuno legge altro. La
gente è persuasa che le
storie narrate da Tom
Clancy siano vere. Ho
visto gente piangere
alla rappresentazione
teatrale di Clear and
Present Danger. Io mi
trattenevo per non
urlare: «È una menzogna,
è tutta propaganda!» ma
la gente ci crede.
Allora abbiamo deciso di
scrivere un thriller che
mettesse in scena la
vera CIA, perché adesso
so che la gente avrà più
paura di questo che di
tutti i documentari del
mondo!
Suo figlio Keith era
nella polizia di New
York. È stato ucciso in
servizio.
Il 28 dicembre 1991.
Stava cercando di
impedire un furto.
L’uomo che ha ucciso mio
figlio era uno scimmiato
di crack che aveva già
ucciso altri due uomini,
imprigionato due volte,
e due volte rilasciato.
Di recente lei ha
pubblicamente proposto
al governo della Costa
Rica di arrestare Oliver
North perché risponda
alle accuse di traffico
di droga davanti alla
giustizia di quel Paese?
La Corte Suprema degli
Stati Uniti ha deciso
che i nostri agenti
potevano intervenire in
altri Paesi per
arrestare persone che
avessero infranto le
nostre leggi. Ebbene,
Oscar Arias, premio
Nobel e presidente
costaricano, ha proibito
a vita l’ingresso nel
suo Paese a Oliver
North, per associazione
a delinquere allo scopo
di far transitare dal
Costa Rica la droga
destinata agli Stati
Uniti! Io ho portato
questa logica fino in
fondo: visto che gli USA
avevano legalizzato
arresti di questo tipo,
ch’io avevo già
praticato per conto
della DEA, sarei stato
felice di farne
approfittare il Costa
Rica!
E volevo soprattutto
esser chiaro su un
punto: ho passato
praticamente tutta la
mia vita di adulto
all’interno di questo
sistema, credendo
fermamente che il fine
giustificasse i mezzi.
Ho imparato poi che
questo modo di pensare è
quanto di peggio ci
possa capitare; è
proprio questo modo di
pensare che rischia di
distruggere le nostre
libertà.
Note
(1) Bureau for Alcohol, Tobacco and
Firearms: un corpo di polizia
specializzato in alcol, tabacco e armi
da fuoco.
(2) Accordo di libero
scambio nordamericano, comprendente
Stati Uniti, Canada e Messico. [NdT]
L’intervista a Michael Levine appare per
gentile concessione della rivista «High
Times».
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