da:
http://www.fuoriluogo.it/arretrati/2003/ott_12.htm
Ottobre 2003
Negli anni Trenta l’americano
Harry Anslinger creava il “mostro” marijuana
dopo la fine della proibizione sull’alcool
L’ERBA DELLO STRANIERO
La marijuana era la “droga di messicani
e negri”. In questa chiave fu combattuta in
quanto estranea alla cultura americana, proprio
come era avvenuto per l’oppio delle minoranze
cinesi
Massimiliano Verga
Fino agli inizi del secolo scorso il
cosiddetto “problema della droga” non esisteva.
Come ha scritto Duster, «chiunque poteva andare
dal farmacista sotto casa e comperare qualche
grammo di eroina o di morfina solo per pochi
penny, senza bisogno di una ricetta medica (...)
Ciò accadeva nel 1900, negli Stati Uniti
d’America». Per dirla diversamente, il consumo
di droghe non era né un argomento giuridico, né
una pratica che suscitava particolari clamori
sotto il profilo etico. Anzi, alcune droghe
assumevano nell’immaginario collettivo le
sembianze di autentici “toccasana”. Si pensi, ad
esempio, a quanto affermò il medico personale
della regina Vittoria, Sir John Russel Reynold,
nel 1890: «Se pura e somministrata con scrupolo,
la canapa indiana è una delle medicine più
valide che possediamo».
A partire dai primi del 1900, però, il consumo
di alcune sostanze psicoattive comincia ad
essere percepito come un’azione immorale, una
sorta di vero e proprio “flagello” da cui
difendersi con ogni mezzo. Quest’idea, tanto per
cambiare, nasce negli Usa; e, tanto per
cambiare, rapidamente si propaga oltreoceano. Le
prime sostanze ad essere proibite sono i
derivati dell’oppio e la cocaina, con l’Harrison
Act approvato nel 1914, a cui seguirà la
parentesi proibizionista sugli alcolici, il
“nobile esperimento” in vigore dal 1919 al 1933.
Inizialmente, dunque, la cannabis non viene
travolta dall’ondata proibizionista. Ma si
tratta di aspettare soltanto pochi anni. Con
l’approvazione del Marihuana Tax Act nel 1937,
infatti, anche la cannabis finisce nella “lista
nera” e inizia così una nuova fase delle
politiche antidroga.
Non di rado le leggi vengono direttamente
promosse dalle istituzioni destinate ad
applicarle, con lo scopo di accrescere il loro
potere. Nel caso della proibizione della
marijuana, addirittura, siamo di fronte a una
legge promossa sostanzialmente da una sola
persona, lo scaltro Harry Anslinger, il padre
spirituale della dottrina statunitense (dunque,
mondiale) in materia di droga. Anslinger, dopo
la “gloriosa” esperienza al ministero del Tesoro
per il controllo degli alcolici durante il
Proibizionismo, nel 1930 passa a capo del
neonato Federal Bureau of Narcotics, preposto al
controllo sugli stupefacenti. Tuttavia, proprio
l’abrogazione del fallimentare “nobile
esperimento” diventa una sorta di “problema
interno” per il Bureau, che si vede ridurre una
buona parte dei finanziamenti a suo favore. E
per Anslinger questo rappresenta un ostacolo
alla sua brillante carriera. La sua risposta è
quella di apparire ancora necessario alla causa
statunitense. Anzi, di esserlo quanto e più di
prima, costruendo dal nulla un nuovo nemico da
combattere per tenere ben salda la sua poltrona.
Abile nello sfruttare la situazione e nel
cogliere il potenziale dei media, inizia
un’imponente propaganda contro la marijuana, che
nelle cronache dei quotidiani comincia ad essere
bollata come killer weed, l’erba assassina, o
come il «mostro di fronte al quale anche
Frankenstein sarebbe impallidito». Marijuana che
l’astuto Anslinger individua come il miglior
capro espiatorio del momento, vale a dire
perfettamente funzionale alle sue ambizioni di
potere. Il caso vuole, infatti, che sia fumata
per lo più dalle minoranze messicane, che dopo
aver contribuito alla crescita economica degli
States, come ha scritto Grinspoon, a partire
dalla crisi del 1929 diventano «uno sgradito
surplus nelle regioni devastate dalla
disoccupazione». A questo si aggiunga che viene
fumata anche negli ambienti della musica jazz,
frequentati principalmente da gente di colore (è
in questi anni che si comincia a parlare di
reefer madness, la follia dello spinello, cioè
la droga fumata dai Grifo, i neri e i mulatti).
L’abilità di Ansliger, il primo zar antidroga
della storia, è dunque quella di cavalcare un
malessere generale per fini esclusivamente
personali – dote che soltanto i “grandi”
politici possiedono – e di rendere credibile la
necessità di estirpare ogni forma di cultura
“estranea e non americana” – esattamente come
era avvenuto con l’oppio per le minoranze
cinesi. In altre parole, è quella di rinforzare
l’idea che la proibizione delle droghe e la
repressione dei consumatori siano un’esigenza
collettiva primaria, un atto di fede. Un’idea
che Anslinger ha saputo alimentare e rinnovare
nel corso degli anni, soprattutto grazie alla
sua straordinaria capacità di contraddirsi
ripetutamente e di sostenere con successo le
proprie controverse opinioni. Un esempio è dato
dalle sue affermazioni sulla nota “teoria del
passaggio”, il più grande abbaglio scientifico
in materia di droghe e tuttora argomento
dominante della war on drugs di matrice
statunitense. A ben guardare, l’ipotesi del
“passaggio” inizialmente rimane esclusa dai
discorsi di Anslinger. Nelle dichiarazioni
fornite durante le audizioni che precedono
l’approvazione del
Marijuana Tax Act, Anslinger infatti afferma:
«Non ho mai sentito di casi del genere. Credo si
tratti di una categoria completamente diversa
(quella dell’eroinomane). Chi usa la marijuana
non va in quella direzione». E alcuni mesi dopo
dice ancora: «C’è una categoria completamente
nuova che usa la marijuana. Quelli che usano
l’oppio hanno da 35 a 40 anni. Questi qui invece
hanno intorno ai 20 anni e non conoscono nulla
di eroina o di morfina». Per Anslinger, cioè, la
marijuana resta la “droga da negri e messicani”;
ed in quanto tale, va combattuta per le sue
potenzialità omicide. Una tesi, in verità, che
non viene unanimemente accolta. Nel 1938, ad
esempio, il sindaco di New York La Guardia
nomina una Commissione d’inchiesta che nel 1944,
con il famoso “Rapporto La Guardia”, mette in
serio dubbio le “evidenze” criminali sbandierate
da Anslinger. Ma è proprio nella difficoltà che
viene fuori il grande politico! Sul finire degli
anni ‘40, nuovamente chiamato a rispondere di
fronte al Congresso, Anslinger “dimentica”
l’idea della killer drug ed anzi afferma che la
marijuana rende «gli uomini così pacifici e
innocui, che questa droga avrebbe potuto essere
utilizzata dai comunisti per indebolire lo
spirito combattivo dell’esercito americano». Non
solo. Passano pochi anni e rincara la dose,
affermando che la marijuana «alla fine, quando
viene usata di continuo, è una delle cause,
invero, della tossicodipendenza da eroina»;
mentre sulle potenzialità omicide minimizza la
questione, dicendo che «sebbene vi siano state
molte efferate azioni criminali dovute a questa
droga, non direi che essa rappresenti un fattore
decisivo nella perpetrazione di gesti
delittuosi».
La marijuana diventa così la droga
“propedeutica” al consumo di eroina. Una teoria
che Anslinger, rappresentante Usa nella
Commissione Onu per le droghe stupefacenti fino
al 1970, ribadisce con vigore durante la stesura
della Convenzione Unica del 1961. Proprio in
questa sede, infatti, la cannabis viene inserita
nella Tabella IV insieme all’eroina, in quanto
«particolarmente adatta a determinare abuso ed
effetti nocivi» e in quanto «questa
caratteristica non è compensata da alcun
sostanziale vantaggio terapeutico» Una credenza
medievale che oggi, a distanza di quarant’anni,
è ancora considerata una verità intoccabile.
Basti pensare alla sentenza delle Corte Suprema
degli Usa del 2001 o all’ultimo Report dell’International
Narcotics Control Board.
Una nota conclusiva. Nella Convenzione del 1961
era stato indicato il 1986 quale data per la
completa eliminazione dal pianeta della cannabis.
Anslinger ha saputo anche essere divertente. |