Capita di rado di leggere analisi come quelle che
trovate sotto. Non perchè siano il vangelo, ma perchè non sono banali, ti
mostrano punti di vista inediti che ti aiutano a riflettere e capire.
Andrebbero pubblicate su tutte le prime pagine,
invece bisogna spulciare la rete o i giornali minori per trovarne traccia. Si
può anche non credere, non sposare la tesi esposta sotto, ma non si può
negare che emerge dal mare di banalità che leggiamo o ci propinano, che è
documentata, argomentata e indiscutibilmente logica.
Poi ognuno ne trarrà le proprie conclusioni, ma l'intelligenza e la brillantezza
della tesi vanno riconosciute.
IL primo articolo è stato pubblicato da Il
Manifesto. Insieme a quello sotto sullo stesso argomento ti aiutano a leggere 60
anni di guerra, con una chiave unica.
giuseppe galluccio
Lord Keynes inviato al fronte
Non solo per il petrolio o per prevenire il terrorismo. La guerra serve a
rilanciare l'industria degli armamenti e attenuare così gli effetti della
recessione economica. Un percorso di lettura sulle cause vere o presunte della
volontà angloamericana di attaccare l'Iraq .
di
ENZO MODUGNO
I Social Forum sono stati anche, a guardar bene, dei congressi internazionali di
polemologia, una disciplina che studia le cause delle guerre. Da Firenze a Porto
Alegre in centinaia di dibattiti sono state valutate le dichiarazioni ufficiali
del governo Usa e le principali cause della guerra avanzate finora, cioè il
keynesismo militare, il terrorismo, il petrolio. Partiamo dalla prima
spiegazione, il keynesismo militare.
«Con Reagan - ha scritto Samir Amin - il keynesismo
sociale è stato ripudiato, ma a favore di un
keynesismo militare - immutato dal 1945 e mantenuto anche dopo la dissoluzione
del presunto nemico sovietico - per il quale la scelta egemonica di Washington
ha trovato nuove legittimazioni». Secondo questa versione, la crisi economica,
la più grave dopo il `29, è oggi il pericolo reale e inconfessabile per la
«sicurezza nazionale» Usa, non il terrorismo e il petrolio delle versioni
ufficiali. Quindi la spesa
pubblica militare - il keynesismo infinito - serve in realtà a combattere la
crisi perché ha il duplice effetto:
1) di attutire la recessione - come sostegno alla domanda che diventa decisivo
quando la riduzione della pressione fiscale e i tagli del costo del denaro non
danno risultati
2) di rafforzare l'egemonia militare, che permette
di controllare mercati e campi d'investimento e di rassicurare i capitali esteri
che affluiscono a finanziare il deficit statunitense.
Una sinergia micidiale. La spesa pubblica militare è così diventata la formula
della sopravvivenza per il capitalismo statunitense afflitto da depressione
cronica, ed è ormai una necessità permanente, strutturale, inconfessabile che ha
dunque bisogno di apparire necessaria in altro modo, giustificata cioè da una
continua, ossessiva, apocalittica minaccia, che se c'è va enfatizzata e se non
c'è va
costruita.
Torniamo un po' dietro nella storia, agli anni Trenta, quando gli Usa stavano
attraversando il decennio di depressione più disastroso della loro storia,
curato invano con la spesa pubblica civile. Ma quando «il dottor New Deal -
disse l'allora presidente Roosevelt - lasciò il posto al dottor vinciamo la
guerra», e nel 1941, già nei primi mesi di conflitto con la forte ripresa della
produzione, gli Usa verificarono l'efficacia economica della spesa pubblica
militare, la adottarono stabilmente e da allora non
l'hanno più abbandonata. Quindi non ci troviamo all'inizio della «guerra
infinita» ma ad un'alternanza di guerre calde e fredde che dura da 61 anni: oggi
infatti, con la capacità produttiva inutilizzata al 25%, come nella grande
depressione, l'unica domanda che continua a crescere è quella per gli armamenti.
Il military keynesianism, di cui hanno scritto Paul Sweezy e Paul Baran, Harry
Magdoff, Samir Amin, che hanno interpretato in questo modo le guerre Usa per più
di mezzo secolo, è stato ripreso nei Social Forum ma oggi è quasi ignorato a
sinistra. Ne ha parlato Alex Zanotelli e ne hanno variamente trattato Massimo
Pivetti su «Giano», Giacchè, Burgio e Catone su «L'Ernesto», Nella Ginatempo su
«Pace e guerra» e Sbancor su Indymedia, Luciano Vasapollo e Giorgio Gattei in La
belle epoque è finita, quaderno di «Contropiano». Ma non ve n'è traccia nel pur
dotto volume Per una pace infinita di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni,
secondo i quali la guerra viene fatta per rimuovere le interruzioni alla
circolazione delle comunicazioni e dei flussi del petrolio e del denaro.
Secondo la spiegazione «keynesiano-militare» delle minacce di guerra, il
terrorismo e il petrolio svolgerebbero il ruolo ufficiale di «minaccia».
La guerra al terrorismo è la versione ufficiale fornita dall'amministrazione
Usa, accettata da neoliberisti di destra e di sinistra, e anche da una parte
della sinistra che rifiuta la guerra, ma perché la considera un mezzo inadeguato
e controproducente. Si vedano a questo proposito, le critiche a questa
spiegazione date da Andrea Catone nel numero 5 de «L'Ernesto». Rifiuta questa
versione anche Alex
Zanotelli: «Non è una guerra contro il terrorismo. Non so cosa sia successo l'11
settembre,
un giorno lo sapremo, ma il complesso militare - industriale americano ha usato
l'11 settembre per
rilanciare l'economia».
Qualche mese fa a Praga, il presidente americano George W. Bush ha dichiarato:
«La guerra fredda è finita ma ora ci sono nuovi nemici. Ci abbiamo messo dieci
anni per capire qual era la nuova minaccia», confessando così la troppo lunga
gestazione della strategia statunitense sulla sicurezza nazionale. Ma può essere
detto, con Ramonet, in altro modo: «l'anticomunismo vi era piaciuto? l'antislamismo
vi entusiasmerà».
Tuttavia il terrorismo islamista non è l'Armata rossa e i 10 mila di Al Qaeda
non riescono a giustificare una spesa militare così sproporzionata; anche perché
sono stati allevati, istruiti, armati dagli Usa sin dagli inizi e usati contro
l'Urss in Afganistan; una credibilità vacillante, anche per i dubbi e le
inchieste sull'11 settembre.
E' stato dunque necessario un rilancio ufficiale. Se dopo l'11 settembre erano
stati previsti due anni, adesso il «piano militare strategico per la guerra al
terrore» ne prevede altri trenta, un intero periodo storico, l'equivalente della
Guerra fredda, in realtà la sua continuazione. «E' la formula magica per far
durare all'infinito il periodo delle vacche grasse: la Guerra fredda è una pompa
automatica, si gira
un rubinetto e la gente strepita per nuovi stanziamenti militari, se ne gira un
altro e lo strepito
cessa», scriveva 50 anni fa l'ultraconservatore «U.S. News and World Report»
(citato da Paul Sweezy ne Il capitale monopolistico). Nulla di nuovo dunque,
nient'altro che la solita, collaudatissima «formula magica». Costruire o
enfatizzare la minaccia per giustificare l'ingente spesa pubblica militare. Ma
alla Casa Bianca ci sono due scuole di pensiero e la seconda ha un'altra
minaccia da affiancare al
terrorismo: la mancanza di petrolio.
La mancanza di petrolio costituisce, secondo alcuni documenti dell'amministrazione
Bush, il vero pericolo, dato che fondano alla «sicurezza nazionale» Usa sul
controllo dei giacimenti. Questa spiegazione è recepita da un'altra parte della
sinistra perché combacia con l'interpretazione «leninista» della guerra
imperialistica come guerra di rapina. Per Valentino Parlato potrebbe essere «una
tesi troppo vetero-imperialista» (il manifesto, 18-9-2002). Si sovrappone o
coincide con l'interpretazione
della guerra come imposizione dell'egemonia Usa. La versione petrolio è
frequente sui media
europei ma, come ha rilevato Rifkin, non su quelli americani. In effetti le
compagnie americane hanno comprato ancora nel 2001 il 42% del petrolio che
l'Iraq è riuscito ad esportare.
D'altra parte se si trattasse davvero di una guerra per disporre di più
petrolio, perché solo ora e non dieci anni fa durante la guerra del Golfo?
Quando invece il petrolio fu bloccato, prima col dietro-front a pochi chilometri
da Bagdad e soprattutto poi con le sanzioni.
Il giornale della Confindustria si chiede preoccupato - ed è una preoccupazione
«europea» - se anche questa volta «ci sia interesse a tenere quel greggio
lontano dal mercato per molti anni» («Il Sole-24 Ore», 23-12-2002). Non si
aspetta oil bonanza neanche l'«Economist» (25-1-2003) secondo cui il motivo
della guerra non è il petrolio a buon mercato perché gli impianti petroliferi,
già in cattive
condizioni dopo dieci anni di abbandono, con la guerra peggioreranno e ci
vorranno altri dieci
anni per ripristinarli, specialmente se Saddam Hussein distruggerà i pozzi: per
questo si
prevedono prezzi alti, $40 al barile, «almeno per molti anni».
E poi come sarà gestito il petrolio dell'Iraq? «Il petrolio è degli iracheni» ha
dichiarato il segretario di stato Usa Colin Powell (22 gennaio), ma il suo capo
tace: glie lo lasceranno o glie lo prenderanno tutto? E in questo secondo caso
quanto potrà costare tenere a bada 25 milioni di iracheni?
Dunque non è certo la guerra che assicura agli Usa petrolio a basso costo ma al
contrario il controllo del mercato che già detengono da molti anni: infatti i
paesi veramente dipendenti dal petrolio sono i paesi produttori, che non hanno
mai il coltello dalla parte del manico; il mercato del petrolio e dei
derivati sul petrolio è dominato dalla domanda e i prezzi di riferimento (Brent
e West Texas) si fanno in
Occidente.
Si
prospettava anche un accordo tra i paesi importatori che potrebbero escludere
alcuni paesi produttori gettandoli sul lastrico. E la Russia e altri paesi non
Opec, che sono in grado da soli di fornire tutto il petrolio necessario
sostituendo il Medio oriente, stanno ora tentando di convincere gli Usa ad
acquistarne quote maggiori: c'è infatti incertezza sull'incremento della domanda
di
petrolio, che è del 2,2% secondo il modello di riferimento ma potrebbe essere
solo dell'1,1% in seguito al risparmio energetico in consumi e investimenti.
Perfino il Bush del «no» a Kyoto ha
stanziato 1,2 miliardi per il motore all'idrogeno. Pertanto, e per il fatto che
i giacimenti sono più vasti di quanto stimato qualche anno fa, il dominio sul
mercato assicura già agli Usa abbondanza di petrolio e controllo dei prezzi.
Per questo, anche se la crisi economica, secondo la tesi neoclassica, derivasse
dal prezzo del petrolio - e non invece da ragioni endogene, secondo la tesi
marxiana - non avrebbe comunque senso l'occupazione dei giacimenti perché
rapinare petrolio costa molto di più che comprarlo: la guerra all'Iraq potrebbe
costare fino a 2000 miliardi di dollari, come sostiene l'economista William D.
Nordhaus docente a Yale (il manifesto del 14/2/2003), e quindi gli Usa, che
spendono 100 miliardi all'anno per importare petrolio, con 2000 miliardi
potrebbero comprarne per vent'anni standosene tranquilli a casa. Ma
sfortunatamente il rapporto costi/benefici è stato calcolato su un altro piano.
D'altra parte il colonialismo è tramontato anche perché, stabilita l'egemonia
militare, era più conveniente controllare i mercati che occupare i territori.
Per questo l'occupazione coloniale dei pozzi - oggi - può diventare un'altra
giustificazione per
l'ingente spesa pubblica militare. Il keynesismo militare dunque è un tragico
retaggio delle dittature
che con la gestione neoliberista si è definitivamente affermato come
indispensabile alla sopravvivenza del capitalismo. Un micidiale binomio che va
riconosciuto e fermato: il terrorismo e il petrolio sono solo le giustificazioni
di turno, ci saranno ancora minacce ossessive, apocalittiche, martellanti, e
governanti che non oseranno metterle in dubbio.
L'anticomunismo delle blacklist maccartiste e l'antislamismo di oggi seguono lo
stesso copione. Questo capitalismo ha avuto bisogno quest'anno per sopravvivere
di 700 miliardi di armamenti mentre ne sarebbero bastati 13 per eliminare la
morte per fame. Un cinismo trasversale che ormai solo un grande movimento può
fermare.
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