Milano,
12 dicembre 1969, ore 16.30. Con l'esplosione di una bomba nel salone degli
sportelli della Banca Nazionale dell'Agricoltura, al numero 4 di piazza Fontana,
ha inizio una nuova era tragica.
I terroristi non avrebbero potuto scegliere un momento migliore: la banca è
infatti gremita per il «mercato del venerdì», che richiama gli agricoltori delle
province di Milano e Pavia. L'ordigno è stato collocato in modo da provocare il
massimo numero di vittime: sotto il tavolo al centro del salone riservato alla
clientela, di fronte all'emiciclo degli sportelli. I locali devastati
testimoniano la potenza dell'esplosivo impiegato. Attorno al foro, nel cumulo di
detriti, sono rinvenuti frammenti metallici che verosimilmente appartenevano
all'involucro contenente la carica esplosiva. I tecnici osservano che la
resistenza opposta dal piano di cemento armato del pavimento ha fatto sì che
l'onda esplosiva finisse, con tutta la sua potenza, contro le pareti delimitanti
la volta del salone mandando così in frantumi le vetrate dello stabile, e che la
potenza dell'esplosione, sviluppatasi con maggiore intensità fra il cemento e la
metà sinistra del salone, probabilmente a causa della resistenza frapposta dal
pesante sostegno del tavolo, ha provocato il crollo del rivestimento in mattoni
forati sulla parete che delimita l'angolo posteriore sinistro del locale.
L'attentato causa sedici morti, di cui quattordici
sul colpo, e ottantotto feriti. Non è il più sanguinoso della storia della Prima
Repubblica, ma a livello simbolico è il più sensazionale, se non il più
importante: non si sbaglierebbe a paragonare il trauma che provocò con quello
subito dagli americani dopo l'assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy.
La storia dirà se la strage di piazza Fontana, inaugurando la strategia della
tensione, ha determinato i dieci anni più bui della vita politica italiana.
In quell'oscuro 12 dicembre alcuni ordigni
esplosivi prendono di mira anche altri istituti bancari e diversi edifici. Poco
dopo la strage di piazza Fontana, una bomba viene scoperta nella sede milanese
della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala 6. Non è esplosa. Era
contenuta in una cassetta metallica portavalori ermeticamente chiusa, posta in
una borsa nera. Lo stesso giorno, a Roma, alle 16.55, una bomba esplode nel
passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro che collega l'entrata di
via Veneto con quella di via San Basilio. Si contano tredici feriti.
Alle 17.22 e alle 17.30, sempre a Roma, esplodono
altre due bombe. Una davanti all'Altare della Patria, l'altra all'ingresso del
museo del Risorgimento, in piazza Venezia. I feriti sono quattro.
Nelle ore che seguono gli attentati, vengono
compiute perquisizioni nelle sedi di tutte le organizzazioni dell'estrema
sinistra. Viene visitata anche qualche organizzazione d'estrema destra, ma senza
molta convinzione, visto che le indagini risparmiano
Ordine Nuovo
e
Avanguardia
nazionale, le più importanti. La stampa non tarda a unirsi al coro degli
inquirenti. Fin dall'indomani, come preparata in anticipo, parte un'incredibile
campagna contro gli estremisti di sinistra. I quotidiani si scatenano, circolano
le informazioni più inverosimili. Le indagini sono di una stupefacente rapidità;
in tre giorni viene arrestata una decina di persone sulle quali, come dichiara
la polizia, «gravano pesanti indizi». Sono tutti anarchici dei circoli Bakunin e
22 Marzo. Tra di loro vi sono: Giovanni Aricò, Annelise Borth, Angelo Casile,
Roberto Mander, Emilio Borghese, Mario Merlino, Giuseppe Pinelli e Pietro
Valpreda. Per la polizia, insomma, oltre a quella anarchica, nessun'altra pista
merita di essere presa in considerazione.
Iniziano gli interrogatori. Sono condotti con
energia. Il 15 dicembre, a mezzanotte, nel cortile della questura di Milano, un
corpo s'infrange quasi senza rumore ai piedi di un giornalista. È Giuseppe
Pinelli, uno degli anarchici arrestati tre giorni prima, caduto senza un grido
da una stanza del quarto piano, dove si trova il commissario Calabresi. Causa
ufficiale della morte: suicidio. Non ci crederà nessuno... Tra gli anarchici
fermati subito dopo la strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, il
commissario Calabresi sembra interessarsi a una sola persona: Pietro Valpreda,
di professione ballerino. Il giovane grida la propria innocenza. Essa non sarà
riconosciuta che molto tempo dopo. Eppure, già all'epoca, tutto denunciava
l'esistenza di una «pista nera», che verrà esplorata solo tardivamente.
La sera del 15 dicembre 1969 un giovane professore
di Treviso, Guido Lorenzon, segretario di una sezione della Democrazia
cristiana, si presenta da un avvocato della città dichiarando di essere a
conoscenza di fatti che potrebbero essere in rapporto con gli attentati. È teso,
nervoso; per lui si tratta di tradire la fiducia di un amico di vecchia data,
l'editore
Giovanni Ventura. Due giorni prima, cioè all'indomani delle esplosioni, ha
avuto con quest'ultimo, appena tornato da Roma, una conversazione che, da
allora, l'ossessiona. Le informazioni che Ventura gli ha fornito sugli attentati
sono state troppo precise e circostanziate perché possa essere totalmente
estraneo alla strage.
Già in precedenza Ventura gli aveva parlato con la
stessa precisione dei dieci attentati ai treni compiuti nel Nord Italia nella
notte tra l'8 e il 9 agosto 1969. E gli aveva anche confidato di appartenere a
un'organizzazione clandestina che progettava un colpo di stato mirante a
instaurare un regime ispirato alla Repubblica di Salò. Fino a quel momento
l'amicizia aveva avuto la meglio, e Lorenzon aveva taciuto. Dopo la strage di
Milano non poteva più farlo: nell'ultima conversazione con Ventura, infatti, gli
era parso di capire che questi stesse preparando altri sanguinosi attentati.
Il giorno dopo, in compagnia dell'avvocato,
Lorenzon ripete la sua testimonianza di fronte a un magistrato di Treviso, il
procuratore Pietro Calogero, al quale, in più giorni d'interrogatori, fornisce
un resoconto sistematico di tutte le conversazioni avute con Ventura negli
ultimi mesi. Il magistrato giudica le dichiarazioni del giovane professore
abbastanza importanti da giustificare l'apertura di un'istruttoria sulle
attività dell'editore e dei suoi amici. Con l'aiuto di Lorenzon, che continua a
frequentare Ventura, in qualche settimana Calogero raccoglierà una serie di
solidi indizi contro quest'ultimo e un suo amico,
Franco Freda, un avvocato di Padova ben noto nella regione per le sue
opinioni neonaziste.
La deposizione di Guido Lorenzon, resa a meno di
una settimana di distanza dagli attentati di Milano, era giunta al momento
giusto per rafforzare i sospetti nutriti dai magistrati di Treviso nei confronti
dell'editore Ventura e dei suoi amici dopo un attentato commesso il 15 aprile
1969, con una bomba, contro il rettore (ebreo) dell'università di Padova.
I ritratti di Freda e Ventura tracciati dal
professore di Treviso sono eloquenti. Franco Freda, poco più anziano di Ventura,
è nato a Padova. Grande ammiratore di Hitler e delle ss, fanatico antisemita, ha
fatto la gavetta, come Ventura, nell'msi, di cui all'inizio degli anni Sessanta
ha diretto l'organizzazione universitaria (fuan). Più tardi ha fondato i Gruppi
d'aristocrazia ariana (Gruppi ar), vicini a Ordine Nuovo. Nell'estate del 1968,
quando il suo amico Rauti torna da Atene, apre una libreria a Padova e si mette
a vendere, fianco a fianco, il Mein Kampf e Che Guevara...
Giovanni Ventura, nato nel 1944 a Castelfranco
Veneto, vicino a Treviso, e cresciuto nella nostalgia di Mussolini (suo padre
aveva fatto parte della milizia volontaria fascista, le «camicie nere»), s'è
iscritto all'msi giovanissimo.
Nel 1965, trovando questo movimento troppo
moderato, entra in Ordine Nuovo, la cui politica più energica meglio corrisponde
alle sue aspirazioni. L'anno seguente firma, sulla rivista neonazista «Reazione»
da lui diretta, una serie di articoli violentemente antisemiti dove se la prende
con la borghesia «pan-demo-plutogiudaica».
L'indagine sulla strage del 12 dicembre compirà un
decisivo passo avanti un giorno del novembre 1971, quando un muratore,
nell'eseguire alcune riparazioni sul tetto di una casa di Castelfranco Veneto,
sfonda per errore il tramezzo divisorio di un'abitazione di proprietà di un
consigliere comunale socialista, Giancarlo Marchesin, e scopre un arsenale di
armi ed esplosivi, tra cui, in particolare, casse di munizioni siglate nato.
Arrestato, Marchesin dichiara che quelle armi sono state nascoste lì da Giovanni
Ventura qualche giorno dopo gli attentati del 12 dicembre, e che prima si
trovavano presso un certo Ruggero Pan.
Interrogato a sua volta, Pan rivela che durante
l'estate del 1969, dopo gli attentati ai treni, Ventura gli aveva chiesto di
comprare delle casse metalliche tedesche di marca Jewell. Quelle di legno usate
per collocarvi gli esplosivi negli attentati, aveva spiegato l'editore, non
avevano prodotto l'effetto di «compressione esplosiva del metallo». Pan si era
rifiutato. Il giorno dopo, notando da Ventura una cassetta di metallo, aveva
capito che qualcuno era andato a comprarla al posto suo.
Pan aveva dimenticato l'episodio fino al 13
dicembre 1969, giorno in cui la televisione e i giornali avevano mostrato la
riproduzione di una delle cassette impiegate negli attentati alle banche. Era
una Jewell, identica a quelle acquistate da Freda e Ventura.
I magistrati di Treviso scoprono inoltre che il
gruppo teneva le sue riunioni nella sala di un istituto universitario di Padova
messa a sua disposizione dal custode, Marco Pozzan, braccio destro di Franco
Freda.
Sottoposto dagli inquirenti, il 21 febbraio e il 1°
marzo 1972, a due lunghi interrogatori, Marco Pozzan spiega che il piano,
preparato da tempo, aveva ricevuto il via libera nel corso di una riunione
notturna svoltasi a Padova il 18 aprile 1969. Dapprima reticente sull'identità
di due dei partecipanti alla riunione, arrivati la sera stessa da Roma, Pozzan,
dopo qualche esitazione, rivela il nome di uno di loro: Pino Rauti, all'epoca
capo del movimento Ordine Nuovo. Quanto al secondo, assicura di saperne solo ciò
che gli ha detto Franco Freda: «È un giornalista ed è membro dei servizi
segreti...».
I magistrati, in verità, erano già a conoscenza di
questa riunione grazie alle intercettazioni cui avevano sottoposto il telefono
di Freda. Quello che ignoravano era l'importanza capitale che essa aveva avuto
nell'organizzazione degli attentati del 1969.
I magistrati di Treviso, giudice Stiz e procuratore
Calogero, decidono di arrestare Freda, Ventura, Pozzan e Rauti. Qualche giorno
dopo Stiz si accinge a mettere Pozzan, ritenuto un complice di secondo piano, in
libertà provvisoria; quando questi lo viene a sapere chiede immediatamente di
essere di nuovo ascoltato dal magistrato, davanti al quale ritratta, dichiarando
che la visita di Rauti del 18 aprile 1969 era frutto della sua immaginazione.
Il magistrato verbalizza, ma si rifiuta di
riconoscere la ritrattazione come valida; nel suo atto d'accusa scriverà infatti
che altri elementi provano che soltanto le prime dichiarazioni di Pozzan sono
conformi alla verità. Messo in libertà, Pozzan scompare.
Il 3 marzo 1972 Franco Freda, procuratore legale a
Padova, Giovanni Ventura e Pino Rauti, dirigente nazionale dell'msi e fondatore
del movimento Ordine Nuovo, vengono arrestati. Sono accusati di aver organizzato
gli attentati del 25 aprile 1969 (alla Fiera e alla Stazione Centrale di Milano)
e dell'8 e 9 agosto dello stesso anno (a danno di alcuni treni). Il 21 marzo,
aggiungendo ai capi d'imputazione contro il gruppo Freda-Ventura gli attentati
del 12 dicembre 1969, il giudice Stiz trasmette il fascicolo, per competenza
territoriale, alla procura di Milano.
A proseguire le indagini sono designati tre nuovi
magistrati: il giudice Gerardo D'Ambrosio e i sostituti Luigi Rocco Fiasconaro
ed Emilio Alessandrini. La loro prima iniziativa è rimettere in libertà Rauti,
senza però far cadere il capo d'accusa. Violentemente criticata, questa
decisione si rivelerà in realtà assai saggia. I magistrati non ignorano che
Rauti, testa di lista dell'msi a Roma, verrà di certo eletto deputato. Se al
momento dell'elezione si trovasse ancora in prigione, non solo l'immunità
parlamentare lo farebbe uscire all'istante, ma, soprattutto, i giudici
dovrebbero trasmettere il fascicolo al Parlamento: un insabbiamento che vogliono
evitare a ogni costo.
Riprendendo le indagini da zero, i tre magistrati
milanesi raccolgono in qualche mese una serie di prove decisive contro il gruppo
Freda-Ventura e, nello stesso tempo, dimostrano che i poliziotti e i giudici che
si sono precipitati sulla pista anarchica hanno commesso numerose irregolarità.
Una nuova perizia sui vari frammenti di esplosivi,
sui timer e sulle borse contenenti le bombe ritrovati il 12 dicembre 1969 sul
luogo degli attentati permette di accertare tre fatti importanti:
1) le bombe sono costituite da candelotti di
binitroluene avvolti nel plastico, identici agli esplosivi nascosti da Ventura,
qualche giorno dopo gli attentati, in casa dell'amico Giancarlo Marchesin;
2) i meccanismi di scoppio ritardato delle bombe
provengono da una partita di cinquanta timer Dhiel Jungans acquistati il 22
settembre 1969 da Franco Freda in un negozio di Bologna. Freda spiegherà ai
magistrati di aver comprato i timer su richiesta di un fantomatico capitano
Mohamed Selin Hamid dei servizi segreti algerini, per conto della resistenza
palestinese. Da una verifica compiuta presso le autorità algerine risulta che
questo capitano non esiste; d'altra parte, i servizi segreti israeliani
confermano che nessun timer di questo tipo è stato utilizzato dai feddayn;
3) le borse in cui si trovavano le bombe erano
state acquistate, due giorni prima degli attentati, in una pelletteria di
Padova.
L'11 settembre 1972 un giornalista dell'«Espresso»,
Mario Scialoja, si era infatti presentato dal giudice D'Ambrosio per dirgli che
borse simili a quelle utilizzate per gli attentati erano state vendute a Padova
nel 1969. Per scrupolo di coscienza, D'Ambrosio aveva mandato i carabinieri a
svolgere indagini nelle pelletterie della città. Il rapporto che aveva ricevuto
tre giorni dopo era stupefacente. Un negoziante di Padova aveva dichiarato ai
carabinieri che le borse degli attentati erano state vendute nel suo negozio il
10 dicembre 1969 a un giovane alto e bruno, e si era poi detto stupito che non
ne fossero al corrente, perché era andato egli stesso, insieme a una delle
commesse, il 16 dicembre 1969, a dichiararlo al commissariato, dove la sua
testimonianza era stata verbalizzata.
Ma questo verbale, inviato il giorno stesso per
telex ai poliziotti di Milano e Roma e al ministero dell'Interno, non era mai
arrivato ai magistrati romani che avevano orientato le loro indagini in
direzione degli anarchici. Qualcuno l'aveva fatto deliberatamente sparire.
Non è tutto: qualche giorno dopo, confrontando due
foto della borsa di pelle ritrovata intatta alla Banca Commerciale Italiana, il
giudice D'Ambrosio nota una differenza. Nella prima, scattata la sera stessa
degli attentati, dal manico pende ancora l'etichetta del prezzo. Nella seconda,
scattata un mese più tardi, l'etichetta e la cordicella cui era attaccata sono
scomparse. Ancora una volta, qualcuno è intervenuto a sopprimere delle prove.
Uno dei magistrati, apprendendo i nomi dei presunti
colpevoli, dichiara indignato che se i giudici avessero avuto subito a
disposizione la testimonianza del pellettiere di Padova e l'etichetta della
borsa, le indagini avrebbero preso una direzione diversa e Valpreda non sarebbe
finito in prigione. Il 25 settembre, infatti, tre alti funzionari di pubblica
sicurezza (il vicecapo della polizia, Elvio Catenacci, e i due responsabili
dell'Ufficio politico della questura di Milano) vengono accusati di «intralcio
alla giustizia, omissione di rapporto e dissimulazione e sottrazione di prove».
Ma, due anni più tardi, nei loro confronti verrà
dichiarato il non luogo a procedere...
Ormai convinti di avere in mano, con Franco Freda e
Giovanni Ventura, i personaggi chiave degli attentati, i magistrati milanesi si
applicano a scoprire chi siano, dietro i due uomini, i veri ispiratori della
strategia della tensione. L'istruttoria verrà abbattuta in volo nel 1974 dalla
decisione della Corte di Cassazione di sottrarre loro indagini che dirigevano da
due anni con coraggio esemplare. L'istruttoria viene trasferita a Catanzaro,
dove erano già stati spostati l'inchiesta e il processo Valpreda per «motivi di
ordine pubblico». A Catanzaro esse vengono affidate a due magistrati locali, il
giudice Migliaccio e il sostituto Lombardi, che, senza che si possa mettere in
dubbio la loro onestà, non seguiranno mai le «piste nere» con l'ostinazione dei
predecessori.
«Dopo la sottrazione» scrive il giudice Salvini
«nel dicembre 1974, al Giudice D'Ambrosio della prosecuzione dell'istruttoria
concernente la strage di Piazza Fontana e le responsabilità del s.i.d., non sono
più state condotte a Milano indagini significative sui gruppi della destra
stragista e sui suoi rapporti con settori istituzionali deviati.»
Le indagini restano congelate fino al 1990, quando
il giudice Salvini e il pubblico ministero Maria Grazia Pradella riaprono il
fascicolo del mistero di piazza Fontana. Sono le istruttorie dell'ultima
speranza.
da
Fabrizio Calvi e Frédéric Laurent, Piazza Fontana - La verità su una strage,
Mondadori
L'ergastolo per Delfo Zorzi per la strage di
piazza Fontana, è stato annullato.
La corte d'appello ha riformato la sentenza di primo grado assolvendo Zorzi,
Magni e Rogni, condannati all'ergastolo, riducendo la pena a Stefano Tringali
condannato in primo grado a 4 anni per favoreggiamento.
Questa storia ad oltre trent'anni di distanza dall'evento dimostra che questo è
un ben strano paese. Perfino negli States, dopo un certo numero di anni, la Cia
dissecreta i suoi atti rendendo disponibili a tutti la conoscenza di determinati
fatti.
In
Italia no!
Eppure questa strage ha segnato un po una pietra miliare, per quanto orribile,
nella storia recente. Con questa strage si apre la cosiddetta strategia
della tensione, che accompagnerà tutti gli anni seguenti. Eppure oramai è
passato tanto tempo. Le ricadute sull'oggi sarebbero davvero poche. La verità
servirebbe ai familiari delle vittime e a stabilire un minimo di verità storica,
per ricostruire una verità decente su quella che è stata la strategia della
tensione
In
attesa delle motivazioni della sentenza di appello, in attesa di conoscere le
mosse dell'accusa e l'eventuale ricorso avverso la sentenza, sarà opportuno
ricostruire la storia di quella strage.
Collegata alla strage c'è un 'altra vicenda, un altro mistero. Questo arrivato
con ricadute anche ai giorni nostri. La strage fu in un primo momento attribuita
agli anarchici ( come al solito del resto!). Furono fatte diverse retate in quei
circoli e in quegli ambienti che appartenevano o comunque erano vicini a
quell'area. In una di quelle retate fu arrestato l'anarchico
Giuseppe Pinelli. Questi morirà durante un 'interrogatorio,volando da una
finestra della questura.
La
versione ufficiale, è di un suicidio, in un primo momento si parlò di un
incidente . Ma la versione dell'incidente faceva acqua da tutte le
parti. Infatti la posizione del corpo sul marciapiedi a diversi metri di
distanza dalla linea perpendicolare della finestra, dimostrano che il corpo non
può essere precipitato per una caso fortuito. Sono chiare le evidenze che
c'è stato uno slancio. Per cui delle due l'una: o si è lanciato o l'hanno
buttato. Voi che dite?
Gli uomini che interrogavano Pinelli era agli ordine del commissario
Calabresi. questi venne ucciso
dopo una violenta campagna di stampa di LC che lo accusava della morte di
Pinelli.
L'omicidio è stato sempre attribuito a quell'area. Anni dopo, grazie al
pentimento più o meno pilotato di Marino vengono accusati Sofri, Bompressi,
Pietrostefani, quali esecutori e mandanti dell'omicidio. Sofri è l'unico
ad essere ancora in galera . Ma della vicenda Calabresi, di Pinelli, del caso
Sofri tratteremo a parte.
giuseppe galluccio 11/7/04
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