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PORTELLA DELLA GINESTRA

RICOSTRUZIONE DELL'AVVENIMENTO (giuseppe casarrubea)

A distanza di mezzo secolo, la ricerca testarda dello storico, culminata nel suo libro, ha gettato squarci di luce su zone d’ombra dove avevano riposato tranquille connivenze e strani intrecci. Un contesto che, secondo i documenti raccolti, aveva tra i suoi attori anche l’allora capitano Giallombardo. Giuseppe Casarrubea ha mirato alto, ha contestualizzato microeventi per ricondurli a un quadro assai grande e sconosciuto ai più. E alla fine qualcuno ha colpito. Il rinculo della schioppettata è stato il rinvio a giudizio, deciso dal Gip di Palermo Antonio Tricoli e innescato dalla denuncia per diffamazione dell’ex ufficiale. Certamente soddisfatto di questo provvedimento a tutela dell’onorabilità del suo assistito l’avvocato Enzo Fragalà, deputato nazionale sotto le insegne di An, le stesse di Marzio Tricoli, deputato regionale e fratello del Gip in questione. Ad accrescere il legittimo sospetto che per lo storico potrebbe non essere una passeggiata si aggiunga che Marzio e Antonio sono figli di Giuseppe Tricoli, riconosciuto storico di destra, per molti anni leader missino in Sicilia e docente universitario. Dopo la sua scomparsa, a lui è intitolata l’aula multimediale della facoltà di Scienze Politiche dell’Ateneo palermitano. Ma ogni congettura potrebbe anche non voler dire nulla. La storiografia di destra ha sempre liquidato Portella come la più efferata strage compiuta dalla banda Giuliano, così come si premurò di riferire in parlamento, fin dal giorno dopo l’eccidio, l’allora ministro degli Interni Mario Scelba, sia pur sulla base dei pochi elementi raccolti. Alle medesime conclusioni arrivò il processo d’Appello concluso a Viterbo nel 1952, ma secondo altre tesi tante cose non sono state mai chiarite. Su questi aspetti ha lavorato lo storico di Partinico.

UNA FORATURA PROVVIDENZIALE.
Secondo le sue ricostruzioni, il primo maggio del 1947 Giuliano era a Portella della Ginestra perché qualcuno gli aveva fatto credere che l’operazione da fare fosse un’altra: al via del comizio avrebbe dovuto disperdere la folla sparando per aria e grazie all’aiuto di un’altra sua squadra, proveniente dalla parte opposta, sequestrare, processare pubblicamente e giustiziare sul posto l’oratore ufficiale di quella mattina, che lui credeva fosse il leader comunista
Girolamo Li Causi. L’oratore designato era invece il giovane dirigente della Federterra Francesco Renda, oggi storico e professore emerito dell’Università di Palermo che, fatalità volle, avendo forato una gomma della sua moto giunse sul posto quando l’attacco era già in corso. Ma le cose andarono diversamente: la seconda squadra attesa da Giuliano non arrivò mai e Frà Diavolo, al comando di un altro gruppo di fuoco, sparò per uccidere. Gli esami autoptici sugli undici morti e le perizie balistiche sui sopravvissuti offrono prove e spunti di riflessione in questo senso. Giuliano e i suoi spararono dall’alto, molto distanti dal pianoro di Portella, altri erano più in basso e più vicini... Fra’ Diavolo, noto confidente della polizia, sapeva bene cosa fare. E quell’azione non sembrava proprio farina del suo sacco. Fin dai giorni precedenti le elezioni regionali siciliane del 20 aprile, che avrebbero segnato la vittoria del Blocco del Popolo, nei paesi vicini a Portella (Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello) i mafiosi avevano apertamente fatto capire che qualcosa sarebbe accaduto il primo maggio. Il capomafia di San Cipirello, Salvatore Celeste, in un pubblico comizio si esprimeva in questi termini: «Una vittoria del Blocco del Popolo sarà tanti fossi che si scaveranno per i comunisti e tanto sangue sarà sparso. I figli non troveranno il padre e la madre perché conoscete chi sono io». Di ciò si trova ampia documentazione nel verbale sulla strage indirizzato alla procura di Palermo e redatto dal questore di Palermo Filippo Cosenza l’8 maggio 1947. Il sindaco di San Cipirello dichiarava di aver sentito direttamente e di avere appreso da altri cittadini che si preparava un attacco per la Festa del lavoro. La mattina del primo maggio testimoni affermano di avere sentito tre mafiosi, Giuseppe e Salvatore Romano e Peppino Troia, visti più tardi tornare armati dal luogo dell’eccidio, affermare ad alta voce: «Sarebbe cosa stamattina di piazzare una mitragliatrice e lasciarli tutti là».

Da questo quadro emergono dunque alcuni elementi chiave: quella di Portella era una strage annunciata; era noto il coinvolgimento della mafia; erano almeno due i gruppi di fuoco presenti sul luogo con ordini e obiettivi diversi: da un lato Giuliano, animato dal suo feroce anticomunismo e forse da promesse di impunità non mantenute dall’altro Fra’ Diavolo, esecutore materiale di un più ampio disegno di matrice politico-mafiosa-istituzionale, gradito e caldeggiato anche oltreoceano. Figura centrale in un simile scenario è dunque Fra’ Diavolo, al secolo Salvatore Ferreri, «un bandito “speciale”», afferma Giuseppe Casarrubea, «che godeva delle più alte coperture all’interno dell’Ispettorato generale di Ps della Sicilia. Ferreri è più importante di Giuliano, troppo mitizzato in virtù anche dei “servizi” resi dal giornalista americano e capitano dell’Office of Strategic Service Mike Stern, che fu uno dei primi divulgatori del mito Giuliano negli Usa, oltre che sostenitore delle “trame sotterranee” del fronte anticomunista vicino a Truman in quegli anni. Al bandito di Montelepre si è sempre attribuito un ruolo da attore su un palcoscenico nel quale si poteva operare agevolmente dietro le quinte senza destare sospetti. La differenza tra Giuliano e Ferreri», prosegue lo storico, «è che il primo rappresenta il personaggio principale visibile sulla scena, una sorta di specchietto per le allodole; l’altro, il vero protagonista, si muove nell’ombra di un’eversione neofascista e terroristica voluta da altri. Questa è la vera novità». Ferreri, agganciato attraverso circuiti mafiosi e istituzionali, era stato fatto rientrare da Firenze, dove era scappato dopo il fallimento della vicenda del separatismo in Sicilia. La motivazione ufficiale era quella di infiltrarlo nella banda Giuliano per spiare e fare catturare il «re di Montelepre». In realtà fu usato per ordire ben altre trame e non a caso il suo nome non figurò neppure nella denuncia della strage alla Procura di Palermo. Dopo il primo maggio l’attacco alla sinistra proseguì con gli attentati alle Camere del lavoro del Palermitano. Lo stesso Ferreri potrebbe essere stato tra gli esecutori dell’assalto di Partinico. Ci fu allora un momento in cui Fra’ Diavolo e i suoi uomini divennero testimoni scomodi. E non deve essere stata una coincidenza che appena quattro giorni dopo gli attacchi alle Camere del lavoro furono uccisi. Da Giallombardo appunto. Su come ciò sia avvenuto è la materia del contendere che ha portato alla sbarra Giuseppe Casarrubea il quale, secondo l’allora capitano, avrebbe fatto una ricostruzione dell’accaduto non vera e soprattutto gravemente diffamatoria.

LO SCENARIO DEI FATTI.
Lo scenario dei fatti è Alcamo, comune della provincia di Trapani, regno di Vincenzo Rimi, capomafia indiscusso e fortemente politicizzato, divenuto negli anni successivi segretario della locale Democrazia Cristiana. Alcamo non è un luogo qualunque, anche geograficamente: confina col palermitano ed è a circa 20 chilometri da Montelepre, il paese del bandito Salvatore Giuliano. Giallombardo sostiene che l’uccisione di Frà Diavolo, del padre e dei fratelli Pianello avvenne in un normale conflitto a fuoco. Casarrubea sostiene, al contrario, che il conflitto fu costruito a tavolino, con la complicità della mafia e di Rimi in particolare. In Sicilia nessun malvivente poteva permettersi il lusso di circolare liberamente senza il consenso della mafia, che ebbe delle contropartite per consegnare i banditi alla polizia, cioè una sorta di legittimazione del suo potere nel territorio. A leggere le carte ufficiali le discordanze non mancano. La perizia del procuratore della Repubblica di Palermo Arcangelo Rodanò, fatta otto ore dopo l’uccisione di Ferreri & C, rilevò che i cadaveri furono trovati in un punto abbastanza lontano dai luoghi del conflitto indicatati nei verbali scritti dall’ufficiale. Chi diceva la verità? Il procuratore o il carabiniere? Ecco dunque uno dei materiali inediti, utili per una rilettura di questa misteriosa pagina di storia italiana, che il professore Casarrubea e il suo legale, avvocato Vincenzo Gervasi, stanno mettendo a punto per il dibattimento. Lunga sarà la lista dei testimoni citati dalla difesa: storici del calibro di
Nicola Tranfaglia e Salvatore Lupo, l’ex presidente della Commissione stragi Giovanni Pellegrino, familiari delle vittime di Portella e persone sopravvissute alla strage. Prepara le sue cartucce anche Giallombardo, che per l’uccisione di Fra’ Diavolo ricevette nel 1949 dall’allora ministro della Difesa Randolfo Pacciardi una medaglia al valore militare.

«Peccato», chiosa Casarrubea, «che il nome di
Pacciardi ritorni costantemente negli ambienti in cui maturarono tutte le stragi italiane degli ultimi quarant’anni. Basta leggere in proposito gli atti della Commissione parlamentare». Intanto, mentre la vigilia del processo scalda gli animi e gli schieramenti, Giuseppe Casarrubea incassa tanta solidarietà, compresa anche quella di Sergio Cofferati, e conclude: «Se qualcuno si è messo in testa di portare la storia in tribunale, dopo le battaglie fatte dall’Associazione dei familiari delle vittime di Portella per desecretare le carte tenute segrete per oltre cinquant’anni, ha fatto male i conti».

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