Tratto da:
http://www.simg.it/servizi/servizi_riviste98/storia_farmaco.htm
vedi sito
di : C.Blengini Medico
Generale - Dogliani (Cuneo) E.Pugno
Medico Chirurgo - Torino
La morfina
rappresenta una delle numerose sostanze
contenute nel succo di una pianta, il
Papaver somniferum,
probabilmente originaria dell’altopiano
anatolico. Rappresenta il principale
costituente dell’oppio, il lattice essiccato
ottenuto per incisione delle capsule
immature. Conosciuto da millenni, venne
usato già ai tempi degli egiziani e dei
sumeri. L’etimologia del termine oppio
deriva da una parola di origine greca, opos,
che significa appunto "succo".
L’uso
dell’oppio è documentato nei più antichi
documenti scritti che ci siano pervenuti. Le
antiche popolazioni della Mesopotamia
conoscevano bene le proprietà euforizzanti
del succo d’oppio; i Sumeri, già nel 4000
a.C., definivano con un ideogramma ben
preciso il papavero da oppio come pianta
della gioia.
L’oppio
usato dagli Egizi come calmante per i
bambini, era l’ingrediente principale del
pharmakon nepenthes che Elena versa nel vino
durante il banchetto con Telemaco alla corte
di Menelao (Omero. Odissea, IV, 219-228).
Nella
mitologia greca e romana l’oppio era usato
nel culto ufficiale di Demetra, la dea della
terra feconda, sorella di Zeus, che pare
usasse il papavero per alleviare il dolore
provocatole dal rapimento della figlia
Persefone. Nelle sue raffigurazioni, questa
divinità tiene in mano, tra le spighe di
grano, il papavero, presente anche nelle
decorazioni dei suoi altari e come insegna
delle sue sacerdotesse. Il papavero è spesso
presente nelle mani di Morfeo, dio del
sonno, mentre Nyx, dea della notte,
dispensava papaveri agli uomini.
L’oppio era presente in moltissimi tipi di
pozione (teriaca) messi a punto dai medici
greci e romani. La teriaca più nota era il
galenos (soave) elaborata dal cretese
Andromaco il Vecchio, medico della corte di
Nerone: era raccomandato come un’infallibile
panacea. Galeno prescriveva tale pozione,
diluita in alcool e stemperata in abbondanti
dosi di miele, per molte patologie (sintomi
di avvelenamento, cefalee, problemi di vista
ed epilessia) e con queste curò l’imperatore
Marco Aurelio sino a farlo divenire
dipendente dall’oppio, secondo i resoconti
clinici dello stesso medico.
Venne
impiegato comunemente dai popoli di
derivazione araba e da questi fu diffuso in
Asia e, successivamente nel periodo delle
crociate, in Occidente, dove se ne riscoprì
l’impiego, dimenticato nel periodo
medioevale. Già nel ’500, il grande
Paracelso ne raccomandava l’impiego
magnificandone le virtù sonnifere,
analgesiche ed antidiarroiche. Sydenham,
luminare medico del ’600, ne tesseva le
lodi, scrivendo verso la fine di quel
secolo: "Tra i rimedi che la misericordia
divina ha donato all’uomo per lenire le
sofferenze, nessuno è così universale ed
efficace come l’oppio". Era allora venduto
liberamente e consumato dapprima per bocca
e, dall’Ottocento in poi, anche fumato.
L’assunzione voluttuaria di questa sostanza
era considerata all’epoca un vizio meno
importante dell’abuso di alcolici. L’oppio,
ormai prodotto in larga scala, diveniva una
merce acquistabile a basso prezzo; in
Inghilterra veniva venduto a prezzi da
cinque a dieci volte più bassi di quelli
della birra e dell’alcool. Le enormi
piantagioni inglesi d’oppio in India ed il
basso costo della manodopera, ne
permettevano la commercializzazione a prezzi
concorrenziali. Questo determinò,
soprattutto nella classe operaia,
l’instaurarsi di un’epidemia d’abuso ancora
più grave di quella dell’alcolismo.
Contemporaneamente, nel diciannovesimo
secolo, l’avvio della produzione di farmaci
a livello industriale favorì
un’impressionante proliferazione di rimedi a
base d’oppio, largamente pubblicizzati e
distribuiti in modo capillare.
Nello stesso
periodo, furono fondamentali due scoperte
che determinarono la svolta nell’impiego
dell’oppio. La prima ad opera di Sertürner,
che nel 1806 isolò in laboratorio quella che
sarà la morfina, chiamandola principium
somniferum. Solo nel 1811, Sertürner definì
chimicamente questa sostanza come alcalina e
la chiamò morphium. Nel 1817, Gay-Lussac
tradusse il suo lavoro e lo pubblicò sul
prestigioso Annals de Chimie di cui era
editor. Riconobbe non solo l’importanza
della scoperta del principio attivo
dell’oppio, ma anche quella dell’isolamento
di una sostanza estratta da una pianta con
caratteristiche basiche e contenente azoto.
Tutti i composti isolati fino ad allora
dalle piante erano, infatti, neutri o acidi.
Prevedendo l’esistenza di molte altre
sostanze simili di origine vegetale, propose
per la prima volta una standardizzazione
della nomenclatura della chimica organica;
suggerendo di modificare il nome morphium
aggiungendo il suffisso -ina, da cui
"morfina". L’anno successivo, venne
introdotto il termine "alcaloide" nella
chimica organica per indicare composti
azotati e con proprietà basiche isolati da
piante. La struttura chimica della morfina è
stata chiarita nel 1923 da Robinson e Schöpf
ed essa venne prodotta per sintesi solo nel
1956 da Gates.
La seconda
grande scoperta che modificò la storia di
questa sostanza fu quella dell’ago
ipodermico (Alexander Wood, 1853). Si
verificò così, con la somministrazione di
oppioidi in vena, la prima comparsa di
effetti estremamente intensificati, vista,
la notevole potenza e rapidità d’azione
della sostanza per questa via, con aumento
sia dei suoi effetti positivi che negativi.
La scoperta dell’efficacia del suo impiego
per via parenterale determinò un largo uso
di tale farmaco in guerra, per lenire il
dolore dei soldati, mutilati da orrende
ferite d’arma da fuoco. Cominciarono così a
comparire tra i militari i primi casi di
tossicodipendenza da morfina, che andarono
ad aggiungersi a quelli tra i fumatori
d’oppio, prodotti dalle fumerie gestite
dagli immigrati cinesi in America. Nacque
così il fenomeno della tossicodipendenza che
persiste ancora immutato nella sostanza ai
nostri giorni, ma numericamente in forte
espansione.
Da allora si
susseguirono sintesi di nuove sostanze
oppiacee ed allucinogene, che nate in
laboratorio per motivi scientifici, andarono
ad accrescere il già notevole armamentario a
disposizione del mercato della
tossicodipendenza. Valga come esempio
l’impiego dell’eroina. Nel 1898, la Bayer
annunciava al mondo di essere finalmente
pronta a commercializzare questo farmaco
miracoloso utile "contro tutti i dolori,
come sedativo della tosse, e per la cura dei
tossicomani" con una massiccia e capillare
campagna pubblicitaria. Foglietti
illustrativi, brochures e campioni gratuiti
della sostanza vennero inviati a medici e a
farmacie dei paesi industrializzati. Era la
diacetilmorfina, il cui nome commerciale,
eroina, derivava dalla parola tedesca
heroisch, energico, eroico, dato che
sembrava essere un farmaco potente ed
apparentemente privo di effetti collaterali.
Nata nell’intento dei suoi ideatori come
sostanza in grado di disassuefare i
tossicodipendenti dall’uso di morfina (di
qui il suo nome) è finita invece miseramente
sul mercato a soppiantare l’impiego della
prima nelle preferenze degli spacciatori e
dei consumatori voluttuari.
Si assiste
così ad una progressiva escalation d’impiego
di queste sostanze per uso voluttuario,
coltivata e blandita dal mercato
clandestino, che trova nella loro vendita
una fonte sempre maggiore di guadagno. Si
determina così un paradosso che ha però
risvolti drammatici nella cura degli
ammalati afflitti da dolore. La comparsa di
una legislazione in molti casi estremamente
rigida, volta a tutelare dall’abuso
dell’impiego di queste sostanze a scopo
voluttuario, si rivela nei fatti una pesante
barriera alla loro prescrizione a scopo
curativo nei casi in cui può rivelarsi
determinante oltreché efficace.
Nascono così le paure, alimentate
nell’immaginario collettivo da un equivoco
di fondo mai abbastanza chiarito: la
tendenza cioè a sovrapporre gli effetti
negativi di questi farmaci, determinati
dalla tossicodipendenza, con quelli
positivi, indici di efficacia, determinati
dal loro corretto impiego nelle situazioni
di dolore. Ne deriva così che
mentre la disponibilità di oppiacei sul
mercato clandestino si rivela ogni giorno in
aumento e in grado di rispondere a richieste
diversificate, il malato terminale si vede
ridurre quotidianamente lo spazio
prescrittivo per queste sostanze dalla paura
dei medici e dei farmacisti di incorrere in
sanzioni penali, che il legislatore aveva
approntato unicamente per scoraggiarne l’uso
improprio.
Sono sotto
gli occhi di tutti i dati sconsolanti
dell’impiego di questi farmaci negli
ammalati in fase terminale nel nostro
"civilissimo" paese (come purtroppo in molti
altri "altrettanto civili"), a cui fa da
contro altare l’alta percentuale di soggetti
che denunciano dolori di entità da moderata
a grave, perché non curati in modo adeguato.
Se è ormai storia ventennale la proposta
dell’OMS per la cura del dolore negli
ammalati di cancro, questi dati sottolineano
ancora una volta, se mai ce ne fosse
bisogno, che l’attenzione ai problemi del
malato terminale passa innanzi tutto
attraverso l’applicazione di protocolli
internazionali validati per il trattamento
del dolore. Ma per ottenere una
svolta efficace si dovranno approntare nel
nostro paese, come è già stato fatto in
altre realtà con risultati lusinghieri,
momenti di formazione trasversali per tutta
la categoria: Medici Generali, ospedalieri,
specialisti territoriali, farmacisti,
infermieri e operatori sanitari che portino
a condividere la filosofia del trattamento
del dolore e di quella delle cure
palliative.
Solo con un cambiamento epocale
nell’immaginario collettivo di operatori
sanitari e pazienti si potrà giungere in
tempi brevi ad una cura efficace della
sofferenza che possa migliorare in modo
sostanziale la qualità di vita di questi
soggetti nella fase terminale della
malattia. I media e la carta stampata
potrebbero giocare un positivo ruolo di
servizio a tutto il paese nel promuovere in
modo efficace e con strumenti adeguati
questo obiettivo.