Revolutionary
Worker intervista Gary Webb, l'uomo che ha
denunciato il sistema americano e la CIA come
produttori e distributori di droghe di massa, mirate
al controllo della popolazione. La sua inchiesta,
pubblicata sul San José Mercury News, si intitola
The Dark Alliance [Revolutionary Worker, n. 912
22 giugno 1997, segnalato su ecn.org].
Secondo lei, perché il suo esposto ha
suscitato tanto clamore? Che cosa ha davvero
attirato l'attenzione della gente e inquietato a tal
punto il governo?
Semplicemente il fatto che noi abbiamo scoperto dove
arrivava questa cocaina. Durante gli anni Ottanta,
erano già stati pubblicati un discreto numero di
articoli, anche sulla stampa a grande tiratura, a
proposito della Contra che avrebbe spacciato cocaina
negli Stati Uniti. Ciò che noi siamo riusciti a
stabilire è il luogo in cui la merce veniva venduta;
ed era nei ghetti, principalmente a Los Angeles.
Abbiamo così potuto anche mostrare gli effetti di
tutta questa storia: l'orribile epidemia di crack
che da Los Angeles si era diffusa in centinaia di
altre città statunitensi negli anni seguenti. Penso
che sia stato questo che più di tutto ha fatto
infuriare la gente.
È interessante, perché all'inizio della sua
inchiesta lei insisteva da un lato sulle migliaia di
giovani neri condannati a lunghe pene detentive per
aver venduto cocaina e dall'altro sull'assenza di
questa droga nel mercato delle comunità nere finché
i nicaraguensi della Contra, sostenuti dalla CIA,
non la fecero arrivare fino a South-Central, L.A.
Personalmente, sono convinto che si tratti
semplicemente di una questione di tempo. Ricordate,
nella stessa epoca, in Colombia si formavano i
cartelli. Di colpo la cocaina sparì dalla
circolazione. I volumi si gonfiarono, i prezzi
calarono. Penso perciò che abbiamo trovato la
spiegazione. Prima dell'inizio degli anni Ottanta,
costava cara per tutti. Con la nascita dei cartelli,
i prezzi crollarono perché la produzione era in
aumento. Cosa che comunque non spiega ancora come
mai se ne trovasse a South-Central. Ciò che noi
abbiamo spiegato è come questa cocaina a buon
mercato sia arrivata a South-Central, attraverso
l'intermediazione del cartello legato alla Contra su
cui ho condotto l'inchiesta.
Che cosa ha appreso sulla relazione tra il
cartello e la proliferazione del crack nella
comunità nera?
Ecco! Il know-how per la fabbricazione del crack era
nell'aria già da un po'. Già dalla fine degli anni
Settanta esistevano qua e là ricette sul modo di
convertire la polvere in crack, scaldandola con
della soda. L'unico problema era che, non essendoci
abbastanza cocaina, risultava troppo caro. Quando si
è cominciato a importare cocaina a buon mercato in
quantità, chi sa come produrre il crack ha di colpo
l'opportunità per farlo. È una materia prima a tutti
gli effetti: costoro hanno fornito la materia prima
di ciò che è divenuto il problema del crack. Eccola,
la relazione. Non sto dicendo che la CIA ha
inventato il crack, o che la Contra l'ha fatto
arrivare. Essi hanno soltanto immesso la polvere sul
mercato, ma i clienti della strada sapevano come
trasformarla in crack pur non avendo mai potuto
farlo, in mancanza delle quantità necessarie.
Una delle cose che lei ha rivelato, è il
volume di cocaina che di colpo si rende disponibile.
L'uomo alla testa di questo cartello, Norwin Meneses,
era uno dei più grossi trafficanti di cocaina in
America latina. Egli trattava direttamente con gli
altri cartelli; aveva un accesso illimitato alla
cocaina, ed era capace di farne entrare tonnellate
nei vari Paesi illegalmente. Se volete crearvi un
mercato a Los Angeles, vi conviene averne molta, di
roba.
Che cosa ha saputo del modo in cui questi
personaggi hanno potuto far entrare tanta cocaina
negli Stati Uniti?
Avendo molti mezzi a disposizione, cambiavano i
percorsi ogni volta che ne veniva scoperto uno o che
una maglia veniva localizzata. Potevano far arrivare
la coca in auto o in camion. All'inizio degli anni
Ottanta, si servivano dei cargo colombiani, che
navigavano lungo le coste degli Stati Uniti. E
questi cargo facevano scalo a Los Angeles, a San
Francisco, a Portland, a Seattle, giusto il tempo
per attraccare e scaricare. La cosa più interessante
è quando hanno incominciato a utilizzare aerei
dell'aviazione militare salvadoregna, verso il
1984-85. Esisteva una base aerea in Salvador, che
era utilizzata per i rifornimenti ai Contras. La
cocaina era caricata sugli aerei salvadoregni fino a
una base aerea nel Texas, dove veniva scaricata, per
essere indirizzata altrove.
E se voi prestate attenzione a
ciò che ha scoperto la commissione Kerry, istituita
dal Senato negli anni Ottanta, troverete
testimonianze secondo le quali aerei carichi di
droga atterravano in una base aerea militare in
Florida. Quale miglior modo di proteggere una
partita di coca che farla trasportare da aerei
militari, frammista a materiale bellico? Nessuno
sospetta di nulla. Esisteva un regolamento
doganale il quale precisava che certi voli non
dovevano essere sottoposti ad alcun controllo,
trattandosi di voli della CIA. Si hanno forti motivi
di ritenere che siano stati proprio quelli con cui
viaggiava la cocaina.
Ha un'idea dei quantitativi in questione?
L'avvocato di un trafficante mi ha rivelato che non
erano rare le spedizioni superiori alla tonnellata.
Avevano a disposizione di grossi aerei da trasporto
utilizzati per l'invio degli aiuti umanitari alla
Contra; cosa che sembrerebbe coinvolgere il
programma nhao sotto il diretto controllo del
Dipartimento di Stato. Di che programma si trattava?
Del Nicaraguan Humanitarian Assistance Office
(Ufficio per l'Assistenza Umanitaria al Nicaragua),
istituito per distribuire 27 milioni di dollari in
aiuti umanitari, dopo che il Congresso aveva votato
la chiusura dei crediti militari. L'amministrazione
Reagan tergiversò e mise in piedi l'nhao, i cui
aerei furono adoperati per le cosiddette spedizioni
varie. Forniture militari e non. Inoltre, l'avvocato
di Danilo Blandon mi ha spiegato che per il viaggio
di ritorno, dopo aver consegnato le forniture,
ritornavano negli Stati Uniti con carichi di diverse
tonnellate. Niente male: in un C-130 di cocaina ce
ne sta un bel po'!
E quanta gente doveva tenere gli occhi ben
chiusi quando queste partite di coca venivano
scaricate nelle basi militari americane? Come si
distribuiva?
Non credo che ciò avvenisse alla luce del sole. La
coca era generalmente impacchettata in coperte
militari imbottite color kaki. Quando si comincia a
scaricare un aereo militare pieno zeppo di
equipaggiamenti e si vedono coperte militari
imbottite qua e là nessuno ci fa caso. Penso che
perfino gli equipaggi degli aerei potevano esserne
all'oscuro. Tutto ciò di cui si ha bisogno è un uomo
di fiducia all'interno della base aerea di Ilopongo,
in Salvador, per fare il carico. Dopo, a nessuno
verrà in mente di perquisire un aereo militare che
rientra negli Stati Uniti da una missione.
Quali erano allora le agenzie governative
implicate nell'invio della cocaina verso gli usa e
nella sua distribuzione?
È difficile a dirsi, perché i trafficanti non
avevano legami diretti con loro. Si tenevano sempre
a debita distanza. Ho scoperto legami con il
Dipartimento di Stato, con il Consiglio di sicurezza
nazionale, la CIA e la DEA. Ognuna di queste agenzie
era implicata in svariati modi. Siamo in possesso di
prove significative secondo le quali membri del
cartello in questione erano in contatto con
funzionari delle suddette agenzie proprio mentre
questo traffico di cocaina era al suo apice. Tali
agenti non sono stati mai inquisiti.
Che legami ha scoperto circa la DEA?
La DEA era in rapporto con Norwin Meneses, il capo
del cartello. Egli stesso lavorava per quest'agenzia
già da qualche anno. Ecco perché non è mai stato
arrestato negli usa: era protetto.
Ha saputo qualcosa di nuovo, nel quadro della
sua inchiesta circa i legami tra la CIA e
l'operazione nel suo insieme?
Uno dei legami che abbiamo scoperto passava
attraverso un agente del Costa Rica. Abbiamo
incontrato un corriere di questa rete, che lavorava
per l'organizzazione di Meneses, a San Francisco.
Questi ha identificato l'agente, ce ne ha fornito il
nome e ha aggiunto che, secondo lui, controllava la
distribuzione dei fondi, che trasportava
personalmente. Esistevano anche corrieri gestiti da
un agente della CIA, che era il loro finanziatore
quasi esclusivo. Quest'uomo era Enrique Bermudez, il
comandante della fdn, un'unità militare della Contra.
Abbiamo anche ottenuto prove che qualcuno, a
Washington, qualcuno corrispondente perlomeno a un
alto funzionario della CIA a Washington, possedeva
precise informazioni sul traffico che si svolgeva
nella base aerea salvadoregna.
La CIA sembra sempre operare in modo da poter
in seguito negare il suo coinvolgimento. È la loro
prassi.
Esatto. Non beccherete mai la CIA in flagrante!
Troverete persone stipendiate dall'agenzia che
domandano ad altri di fare qualcosa. Proprio come
nel nostro caso. Avete un agente straniero, Enrique
Bermudez, che chiede a due uomini, la cui
professione, guarda caso, è lo smercio della
cocaina, di fare qualcosa per un esercito finanziato
dalla CIA, sulla strada maestra della politica
estera degli Stati Uniti. È dunque molto difficile
credere che costoro facessero tutto ciò di testa
loro. Io non ho mai incontrato trafficanti di
cocaina generosi, neanche un po'.
Ha un'idea dell'ammontare delle somme che
entrarono alla fine nelle casse della Contra, grazie
alla vendita di cocaina?
Nel 1982 e nel 1983, all'epoca cioè in cui questo
corriere lavorava per loro, egli stimava che questa
somma fosse tra i 5 e i 6 milioni di dollari. [...]
L'emendamento Boland, grazie al quale il Congresso
soppresse i crediti che la CIA destinava alla Contra,
è del 1984. Ma questi finanziamenti ripresero grazie
alla reinstallazione di Meneses in Costa Rica.
Danilo Blandon cominciò a fornire a Eden Pastora,
uno dei comandanti della Contra, caserme, camion e
soldi. Ma non abbiamo la più pallida idea delle
somme che riguardano questi ultimi anni. Mi sorge il
dubbio che la Contra non abbia mai ricevuto gran
parte di questi narcodollari. Con tutta la cocaina
venduta dalle nostre parti, se i soldi fossero
andati interamente alla Contra, questa non avrebbe
solo vinto la guerra, ma preso il potere in tutta
l'America Centrale.
Milioni di dollari?
Non si sputa mica su 5 o 6 milioni di dollari.
Quindi lei afferma anche di aver trovato
legami con il Dipartimento di Stato. Ciò rientra nel
quadro?
Ciò fa parte del resto dell'inchiesta. Ancora
inedito. Ma ci sono state stranissime riunioni, con
certi funzionari del Dipartimento di Stato implicati
in vicende di grande interesse.
Dall'inizio della sua inchiesta, si è
assistito a una campagna molto intensa per
screditarla e impedirle l'accesso ai mass media. Può
parlarcene?
Una campagna che mi sembra trionfale. Ma il dado
ormai è tratto. Se guardate indietro, al momento
degli scandali della CIA durante gli anni Settanta,
rivelati da un esposto di Seymour Hersh, o dal
lavoro di Daniel Schore per la cbs, troverete che
entrambi si sono ritrovati oggetto della stessa
campagna diffamatoria.
Può descrivere per i nostri lettori cosa le è
capitato?
Be', ho visto giornalisti scrivere che non avevo
alcuna prova a sostegno di quanto avanzavo; che
niente di quanto affermavo era fondato. C'è stato un
articolo del «Washington Post», secondo cui
l'inchiesta insinuava che la CIA avesse mire
sull'America nera. Era una campagna di
disinformazione molto sottile che cercava di far
credere alla gente che questi articoli dicessero
altro da ciò che in realtà dicevano. O per far loro
dire altro da ciò che noi avevamo inteso. «Va be',
dopo tutto non ci sono prove», questo era quanto la
gente avrebbe dovuto pensare. Si tratta di pura e
semplice propaganda. Ho proposto un libro e c'è
stata una fuga di notizie verso il «Los Angeles
Times». Questi che cos'hanno fatto? Molto
semplicemente, ne hanno censurato una parte
pubblicando poi il resto sul loro giornale, in modo
da farmi passare per un teorico del complotto.
Che cosa significa, secondo lei, la presenza
del capo della CIA a un meeting a South-Central, Los
Angeles?
Dimostra quanta paura avesse la CIA di questa
storia: non avevano mai fatto una cosa del genere.
Il capo della CIA che appare in pubblico e risponde
a delle domande! Non si può certo dire che abbia poi
risposto, ma almeno è stato obbligato a fingere di
provarci. Questo ci dà l'esatta misura dell'allarme
a Washington.
Parlando dei diversi attacchi subìti, ha
utilizzato il termine campagna di disinformazione.
Può dirci di più in merito?
Negli anni Ottanta, esisteva la «Gestione della
Percezione». Si trattava di un programma istituito
all'interno stesso del Dipartimento di Stato, da
esperti in propaganda della CIA con l'obiettivo di:
a) rilevare, ponendoli nell'impossibilità di
nuocere, tutti i giornalisti critici verso la guerra
della Contra e che lavoravano intorno al
coinvolgimento della Contra nel traffico di cocaina;
b) intimorire i redattori e gli altri giornalisti
tentati di seguirne l'esempio. Ci sono molte
similitudini, se guardate bene i risultati ottenuti
negli anni Ottanta, con quanto succede oggi. C'è
gente incaricata di propalare dicerie sul vostro
conto. Sono gli agenti di Accuracy in Media,
l'organizzazione di Reed Irvine, gli stessi, dunque,
che oggi si svegliano per dire che dietro questa
storia della CIA non c'è niente, che è tutto
inventato. Gli stessi agenti, dunque, che erano
montati sugli spalti negli anni Ottanta per
sostenere che a El Mozote non era successo niente
[un'unità speciale, addestrata dall'esercito
americano, procedette allo sterminio della
popolazione del villaggio di El Mozote, in Salvador,
trucidando più di 300 tra uomini, donne, vecchi e
bambini, ndr], che la notizia del massacro era una
bufala e che il reporter del «Times», Raymond Bonner,
era un simpatizzante comunista. Gli stessi. E una
delle cose che s'impara, occupandosi delle agenzie
d'informazione, è riconoscere il loro modo di
operare. Le persone cambiano ma le procedure
restano. La «Gestione della Percezione» degli anni
Ottanta era uguale a quella praticata oggi. La
grande stampa è ormai convinta che alla base della
nostra inchiesta non ci sia nulla di concreto. Anche
se nessuno, di fatto, è riuscito a scoprirvi degli
errori.
Perché allora, malgrado questi attacchi, sia
personali che diretti contro i suoi reportage,
continuare a rischiare per raccontare questa storia?
Perché è vera. È la base di tutta questa storia: la
verità. E si diventa per forza giornalisti per
questa verità. Se pensassi che si tratta di favole,
o se fossi convinto di essermi sbagliato, lo direi:
«Ho fatto un errore». Ma non mi sto sbagliando. La
gente deve conoscere questa storia non solo per
capire quanto è successo, ma anche perché, perdiana,
dovrà pur esserci un responsabile! È criminale
quanto è accaduto. Si continua ad arrestare gente
per traffico di cocaina. E proprio questo affaire ha
fatto entrare tonnellate su tonnellate di cocaina
negli Stati Uniti. Nei ghetti dei downtown. Ma
nessuno finora è ancora stato punito per questo, a
parte gli abitanti dei quartieri presi di mira.
[...]
Devono comparire ancora quattro puntate,
vero?
È come se non esistessero. Nessuno le pubblicherà
mai.
Può farcene un sunto, a grandi linee?
Si tratta principalmente di sapere chi, nel governo
degli Stati Uniti, era al corrente. E anche di
conoscere i legami fra altre agenzie governative e i
cartelli della droga. Le loro attività in Costa
Rica, in Salvador. I vani sforzi dei poliziotti di
Los Angeles per portare quei tipi lì davanti alla
giustizia, come si sono fatti imbrogliare e prendere
per il naso. Il coinvolgimento di Oliver North nel
giro dei trafficanti di droga del Costa Rica, in
ogni caso il coinvolgimento della sua rete. Esistono
molte informazioni su questo aspetto. Tutto
inutile...