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Il caso Travaglio

A proposito del caso Travaglio
di Furio Colombo
«Il fatto di essere assediati ci costringe ad essere autoreferenziali, a parlare sempre di noi stessi distogliendoci dal vasto orizzonte di problemi che sono intorno a noi, che tormentano l’Italia e che sono davvero da risolvere». È la frase di un magistrato pronunciata al Tg3 nel giorno dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario (ovvero il giorno della rivolta dei giudici contro il loro persecutore, il ministro della Giustizia Castelli) e questa frase ci è d’aiuto per inoltrarci nel percorso difficile che è il cosiddetto “caso Travaglio” . Per l’Unità vuol dire prendersi sulle spalle un problema
pesantissimo. Dico subito che lo faccio con disagio perché spinge fuori pista la linea che il giornale è andata cercando fin dalla sua rinascita. È una linea ormai consolidata negli ultimi due anni, e che si può riassumere in due punti: smetterla di voltarsi indietro a giudicare e recriminare il passato, prima ancora di sapere chi ha torto e chi ha ragione. Sappiamo di essere tutti insieme portatori di una Italia moralmente pulita, legale, costituzionale, normale. Niente di miracoloso. Ma è la salvezza di fronte alla proterva e prepotente imposizione di illegalità del governo Berlusconi, che comincia con il controllo quasi completo delle informazioni, esplode nel devastante
conflitto di interessi e trova il suo capolinea nelle leggi aziendali (Gasparri) e in quelle per una persona sola, il presidente del Consiglio. Una di quelle leggi è appena stata dichiarata incostituzionale, segno che uno dei poteri non si è piegato. Ed è per questo che deve proseguire l’ impegno, a cui questo giornale partecipa senza esitazioni, a sostegno dei giudici. Se crolla la diga della resistenza del giudiziario - che una vulgata
sgradevole e un po’ sradicata dai fatti continua a chiamare giustizialismo (la parola è insensata e intraducibile) non ci sono più ostacoli all’impiantarsi di un regime che non avrebbe più argini nemmeno alle urne. Per questo ci pare importante - a parte il criterio di libertà - la presenza di Marco Travaglio sulle pagine di questo giornale.È una di quelle persone non di sinistra che - come Giovanni Sartori - vedono l’emergenza politica e istituzionale che stiamo attraversando e sanno che il più nobile e determinato discorso politico alla Camera e al Senato non basta se i politici sono soli e non hanno il sostegno volontario dei cittadini consapevoli, di quella opinione pubblica autoconvocata che - a volte con sarcasmo - viene chiamata “girotondo”. Personalmente sono del parere che i politici, i quadri, i partiti di fronte al violento urto mediatico della maggioranza di destra che sa usare contro di loro persino le trasmissioni tv in cui essi si presentano per spiegare e spiegarsi, non ce la possono fare se isolati dal Paese, secondo lo schema strategico berlusconiano. Sono anche del parere che la spinta vitale, creativa, scomoda e indispensabile dei cittadini sarebbe una spinta nel vuoto, se non ci fossero partiti aperti, consci della della gravità del momento, pronti a raccogliere e accogliere quella spinta. Ecco perché mi sono meravigliato (editoriale di domenica 18 gennaio) del tono sarcastico dedicato, non solo dalla destra, a Fassino per essere andato ad ascoltare, interrogare ed essere interrogato, alla grande e libera assemblea di cittadini avvenuta a Roma sabato e domenica. Ho scritto, e ripeto, che è esattamente ciò che sta accadendo nella libera America tanto mitizzata dalla destra solo se fa la guerra. I più autorevoli fra i candidati democratici vanno di “caucus” in “caucus” (io traduco: di “girotondo” in “girotondo”) per dire, spiegare e ascoltare.Il lettore avrà notato che - scrivendo queste righe - sto usando la prima persona. Lo faccio perché, pur dirigendo un giornale leale (tutti dicono tutto a tutti e non vi sono manovre sottobanco) e compatto (siamo tutti della stessa persuasione sul pericolo e l’emergenza Berlusconi), non posso sapere se tutti qui all'Unitàcondividono ciò che ho scritto e ciò che sto per scrivere in questo articolo. Anche perché, fra poco, dovrò fare riferimento alla mia esperienza e conoscenza dei fatti come deputato Ds della tredicesima legislatura. Cercherò di dirlo per punti e mi impegno a evitare ogni ambiguità e ogni non detto.
Primo. Mentre mi rendo conto del disagio personale di un bravo collega come Pasquale Cascella, già portavoce di Palazzo Chigi e ora notista politico dell’Unità, e di Gianni Cuperlo, allora assistente del Premier e adesso alla segreteria dei Ds, sono del parere che Massimo D’Alema non avrebbe dovuto trasformare le sue chiare e risolute risposte pubblicate su questo giornale (17 gennaio) in querela, che trascinerà la questione per anni e sarà sorgente di veleni. Un politico sa che intorno al suo operato - per quanto limpido - si formano scorie che richiedono, a volte rinunciando allo sfogo e all’esasperazione, di essere spalate via. Presidenti e politici americani ma anche dovunque in Europa, affrontano gli stessi problemi (e anche situazioni più roventi) in appassionati dibattiti politici in cui mostrano (con grande vantaggio presso l’opinione pubblica) di prendere sul serio l’antagonista (qualunque cosa pensino di lui) proprio per smontare con efficacia e credibilità le sue argomentazioni. Secondo. Sono convinto che Travaglio non avrebbe dovuto, nel giorno delle liste unitarie, in un simile momento tragico della vita italiana, e con quel linguaggio, lanciare quelle accuse. Tanti di noi - non solo in Italia - lo considerano uno dei migliori giornalisti investigativi. Ma qui, prima ancora di discutere l’opportunità di ciò che è accaduto, c’è, e si vede, una vistosa contraddizione di cui Travaglio per primo dovrebbe prendere atto. La spietatezza del giornalista investigativo non coincide con la
determinazione del leader di una parte politica in lotta. Lui dice: non ero lì come leader, ero lì come giornalista e tutti conoscono il mio lavoro. Ma l’evento era politico, la questione era come mobilitarci, e la parola d’ ordine era «stare insieme», come lo era il desiderio appassionato di tutti i partecipanti. Travaglio sa che coloro che vanno a queste manifestazioni lo vedono come un rilevante capofila della lotta a Berlusconi e per questo lo ascoltano. Lui ci fa sapere che questa militanza non può limitare il resto del suo lavoro. Ma c’è una questione di contesto. Quel contesto era «Lista unitaria». Si può fare usando espressioni così pesanti verso una parte dei Ds senza i quali non c’è alcuna Lista unitaria? Il contesto era «emergenza Berlusconi».
Essa - come lo stato d’animo di chi partecipa a eventi come quelli di cui stiamo parlando - deve valere su tutto, pena un incepparsi dei meccanismi della mobilitazione politica spontanea. Tutti erano lì per parlare di Berlusconi, non di D’Alema. Travaglio spiega - nella accurata e motivata lettera all’Unità - di non avere mai nominato D’Alema. Vorrei rispondergli che - inevitabilmente - il senso era quello, sorprendente, date le circostanze. Resta la domanda: ma è vero o no che ciò che Travaglio ha affermato, sia pure con tutte le limitazioni e differenze che ha voluto precisare, rispetto alle notizie date da molti giornali? Terzo. Per provare a rispondere devo riferirmi ai cinque anni che ho trascorso alla Camera come deputato Ds. Sono stato fra coloro che più hanno sofferto per la fine del governo Prodi. Nonostante il buon inizio del mio periodo in un partito in cui - tranne Fassino e Veltroni - non conoscevo nessuno, nonostante il fatto di aver partecipato - con D’Alema, Giuliano Amato, Andrea Manzella e, all’inizio, qualche volta, anche con Ciampi - ai primi tentativi di dare vita alla Fondazione ItalianiEuropei, non si è creato alcun rapporto di attenzione e di comprensione (sono fatti umani, spontanei) tra D’Alema e me. Lui mi riteneva, credo, inesperto e poco adatto alla politica. Io non capivo la relativa mitezza verso la Lega di Bossi (che a me è sempre apparsa pericolosa e paleo-fascista) e non condividevo la incredibile sottovalutazione di Berlusconi. Ma ero e sono orgoglioso di quella esperienza perché sapevo - e ne sono tuttora persuaso - di avere servito un’ Italia pulita, incomparabilmente migliore di quella in cui stiamo vivendo. Eravamo vicini, coinvolti ogni giorno nella rete di lavoro e informazioni personali, tra deputati, commissioni e governo. Sarebbe stato impossibile non sapere di trame e intrighi e disonestà nascoste. Tra l’altro mi sembra che manchino quelle che, in un processo, si chiamano le motivazioni. Alla fine del mandato (a cui, anzi, D’Alema ha rinunciato spontaneamente e in anticipo) non c’è potere. Non c’è influenza su alcun aspetto della vita pubblica ed economica italiana. Qualcuno dei collaboratori di D’Alema di quel tempo è andato per la sua strada e sembra aver fatto fortuna. Ma questo è accaduto anche a Richard Holbrooke che - dopo avere servito come stretto collaboratore di Carter - è diventato un influente banchiere di Wall Street. È stata una sorpresa per molti, ma questo non ha indotto nessuno a pensare che vi fossero ombre su Carter. Quanto a noi, i colleghi al lavoro all’ Unità e presso i Ds non mi sembrano l’evidenza più tipica di vantaggiosi intrighi, vivono una vita modesta, rispetto a ciò che avrebbero ottenuto se fossero usciti dalla politica. Il resto è giudizio politico e può anche essere duro e severo. E qui riprendo a usare la prima persona plurale. Un “noi” che - sono certo - ci rappresenta tutti all’Unità. Noi non chiuderemo alcuna porta né ci sogniamo di negare spazio a opinioni che confliggono. E nello stesso tempo continueremo a dire ciò che pensiamo, e che crediamo sia giusto e necessario dire. Sopratutto conta per noi ciò che ha detto il Presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nella manifestazione romana dei girotondi: «Le differenze sono tante, ma uniti ce la possiamo fare».
 

gennaio 2004

                

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