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Il parere di Onida sulla riforma costituzionale

Referendum senza accordi

Valerio Onida, Il Sole 24 Ore, 03-05-2006

L'inizio di legislatura, con le prime difficoltà davanti alle quali si è trovata l'esile maggioranza di centro-sinistra, vede la ricorrente discussione fra chi ritiene che la maggioranza debba comunque governare, e chi più o meno apertamente auspica formule di convergenza più ampie (di per sé non escluse nel nostro sistema parlamentare) che coinvolgano l'opposizione. Ma dovrebbe essere chiaro, in primo luogo, che la praticabilità e la convenienza delle formule politiche di maggioranza o di convergenza verso "larghe intese" non dipendono solo dal sistema elettorale (che tuttora suppone e favorisce il bipolarismo), e nemmeno solo dalla preferenza di principio che si nutra in senso favorevole o contrario a un assetto politico bipolare; ma anche dalla concreta configurazione che in un dato momento storico ha assunto il sistema politico, cioè le forze politiche tra le quali la contrapposizione o la convergenza dovrebbero realizzarsi. Non esistono una astratta maggioranza e un'astratta opposizione, ma concreti partiti coalizzati con certe caratteristiche di linea, di strategia e di rapporti all'interno delle rispettive coalizioni. Ecco perché è improprio anche invocare (come spesso si sente fare) esempi stranieri. Non è difficile, per esempio, vedere che la Cdu di Angela Merkel con cui la socialdemocrazia tedesca ha realizzato una "grande coalizione", che lascia fuori altre forze politiche, è tutt'altra cosa, per dire, da Forza Italia.
Tutt'altro problema è quello delle convergenze, da ricercare o meno, fra maggioranza e opposizione, o eventualmente parti dell'opposizione, su specifici argomenti o specifiche scelte. Questo è il terreno di una corretta democrazia parlamentare, in cui, mentre è fisiologico che la maggioranza formi un governo su un programma coerente e lo attui in modo coerente con le proprie forze, non è affatto detto che ogni decisione debba sempre e necessariamente vedere schierati su due fronti avversi e reciprocamente impermeabili la maggioranza e l'opposizione uscite dalle elezioni. Negli ultimi anni purtroppo è andata affermandosi una concezione non tanto bipolare quanto di scontro totale, aprioristico e senza esclusione di colpi fra due parti in Parlamento, rischiando così di oscurare il fatto che esistono problemi e scelte che non appartengono di per sé al campo dell'indirizzo di governo, ma piuttosto richiamano all'esigenza di cercare, se possibile, terreni di incontro più ampi.
Ha dunque ragione, e non solo per motivi di "realismo", Sergio Romano quando scrive sul "Corriere della Sera" che occorre distinguere i settori in cui il Governo di maggioranza ha il diritto (e il dovere) di fare la propria politica da altri, «più istituzionali», in cui il Governo può, nell'interesse del Paese, cercare un dialogo con l'opposizione. E ha pure ragione quando annota che uno di questi settori è, certamente, l'elezione del Presidente della Repubblica, che, per il suo ruolo istituzionale, ha sempre rappresentato una carica tendenzialmente svincolata da un rapporto stretto con la maggioranza di governo, anche se ciò non significa necessariamente "equidistanza" fra le parti in Parlamento.
L'equidistanza è infatti qualcosa di meccanico, che comporta il collocarsi sempre in una posizione mediana fra due parti contrapposte, finendo così per dipendere dalle caratteristiche più o meno "estremizzate" di esse; mentre il carattere super partes della funzione presidenziale suppone solo un distacco dagli interessi contingenti di maggioranza e opposizione.
Non sono invece d'accordo nell'indicare il prossimo referendum confermativo sulla riforma costituzionale come un altro terreno di accordo. Non solo perché, approvata la riforma dalla sola precedente maggioranza, ormai siamo nella fase del referendum, che di per sé richiede agli elettori una scelta netta, per il sì o per il no (in questo caso, non essendovi il quorum, non ci può essere alcuna "terza via"). Ma soprattutto perché quella riforma, oggetto di apprezzamenti negativi da parte di quasi tutti i costituzionalisti, pur se talora per ragioni diverse ed opposte, non può in alcun modo costituire la premessa di un buon accordo costituzionale. È piuttosto espressione di una visione delle esigenze delle istituzioni per certi versi non più attuale (come quando presuppone l'esistenza di una debolezza istituzionale - non politica - dell'esecutivo, che oggi è lungi dall'essere vera), per altri versi pericolosa perché dimentica delle istanze di equilibrio e di garanzia che debbono essere salvaguardate in un sano sistema costituzionale.
La verità è che la tesi secondo cui il nostro Paese avrebbe bisogno comunque di una "grande" riforma costituzionale è tutt'altro che dimostrata e persuasiva. Il Paese ha piuttosto bisogno di ritornare pienamente allo spirito di una Costituzione che non è mai "invecchiata" nel suo insieme e che è tuttora espressione di idee e principi validi ed attuali, riflettendo il meglio di una tradizione non angusta e non contingente. Può esservi l'opportunità di questa o di quella specifica modifica anche costituzionale (benché per lo più si possa dimostrare che gli obiettivi voluti si perseguono meglio con riforme di livello legislativo o amministrativo, e con opportuni comportamenti politici): e le modifiche costituzionali dovrebbero sempre realizzarsi con larga convergenza parlamentare. Ma è del tutto contestabile che oggi, nella situazione politica e culturale data, sia desiderabile allontanarsi da un assetto costituzionale complessivo che è stato ed è, esso sì, espressione di unità e di concordia nell'essenziale, per cercarne uno diverso, destinato inevitabilmente a riflettere i caratteri non esaltanti di quella situazione. Detto in altri termini, il rischio reale è quello di adeguare la Costituzione non già a nuove vere o supposte esigenze oggettive, ma agli aspetti peggiori e più degradati della turbolenta esperienza politica e istituzionale che ha segnato il Paese nelle ultime legislature.
Altra cosa è il bisogno di rivedere, e subito, le leggi elettorali (sulle quali, saggiamente, la Costituzione non dice quasi nulla), eliminando o correggendo almeno i peggiori effetti che il sistema di recente introdotto produce o favorisce, in termini di frammentazione del sistema politico e di distacco fra elettorato e rappresentanza parlamentare.

                

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