Sfatiamo questo mito degli
italiani bravi, che anche quando occuparono la Somalia e la Libia lo
fecero con dolcezza, facendosi voler bene dagli indigeni. niente di più
falso. Fu quella una sporca guerra coloniale, come tutte le altre e gli
italiani commisero un sacco di nefandezze usando i gas ( proibiti dalle
convenzioni internazionali) e commettendo ogni sorta di atrocità: nel
tempo la leggenda si è propagata ed ancora oggi vediamo che le truppe
italiane non sono in Iraq come occupanti bensì come corpo di pace per
aiutare la popolazione, come se oramai non si sapesse che stanno li
soprattutto per difendere gli investimenti petroliferi dell'Eni e per
assecondare la linea politica del governo. Hanno sparato sulla folla che
dimostrava, ed hanno chiuso gli occhi sulle nefandezze degli americani.
pummarulella 7/6/06
«Ho visto i nostri
bruciare le case» Le testimonianze dei bersaglieri Tornati dall'Iraq, gli uomini della
Brigata Garibaldi raccontano di violenze, abusi e furti compiuti da loro
commilitoni contro la popolazione civile. «L'abbiamo riferito ai nostri
superiori, ma non potevamo
fare denunce formali. Se lo avessimo fatto, la nostra carriera sarebbe finita»
ROBERTO SAVIANO (Caserta)
«In Iraq i nostri commilitoni si divertivano a circoscrivere le abitazioni di
alcuni sospetti con la benzina, accendevano e guardavano il fuoco avvolgere la
casa di quei poveri cristi che urlavano. Poi spegnevano e arrestavano questa
gente. Ma nella maggior parte dei casi risultavano del tutto innocenti».
Questi i racconti dei soldati appena tornati dopo oltre sei mesi passati in
Iraq alla caserma Garibaldi nel cuore di Caserta. Gli uomini della Brigata
Garibaldi hanno battuto ogni terreno di guerra: Somalia, Kosovo, Mozambico ed
adesso l'Iraq. Incontriamo un gruppo di «reduci» in un bar dove quasi sempre
si raccolgono i bersaglieri in libera uscita. Hanno finito il loro primo ciclo
in Iraq. Torneranno li giù molto presto. Il caporale G.M. è il primo che vuole
raccontare della sua esperienza. Parla con un espressione a metà tra la
stanchezza e il disgusto: «Non dimenticheremo mai cosa abbiamo visto. Miseria
totale, ragazzini che ti si attaccavano agli anfibi per una bottiglietta
d'acqua, donne anziane che dormivano per terra con piaghe dappertutto». I
militari sono stanchi ma anche sconvolti. Chiedono di non citare il loro nome
ed aggiungono che «non è la prima volta che un bersagliere viene punito e
messo sotto inchiesta perché parla con i giornali». Tutti hanno un ricordo
terribile, ognuno ha assistito a scene di fame e malattia. Lo raccontano come
se qui le persone non ne sapessero nulla. «Ai tg noi vediamo un altro Iraq.
Quando racconto cosa ho visto mia madre mi dice, ma sei sicuro che sei stato
in Iraq? Non capisco perché la televisione non dice niente, non fa vedere
niente». «E' vero - aggiunge P.L. è l'unico in abiti borghesi - ai
telegiornali non ho mai visto immagini di uomini che si muoiono di fame e di
bambini che scavano per cercare di rompere qualche tubatura dell'acqua e bere.
In Iraq ogni volta che ero di pattuglia ne vedevo centinaia di scene così».
Chiediamo se gli aiuti del volontariato internazionale riescono ad arrivare,
se c'è una capillarità di distribuzione se gli Usa permettono che i pacchi
umanitari arrivino ovunque. «Altro che aiuti - interviene F.L. - ho visto i
marines entrare in case di sole donne. Mettevano i mitra in faccia alle donne
e stringevano le manette ai polsi di ragazzini che non avevano più di 5 o 6
anni. Io ho foto di bambini messi faccia al muro come criminali, fatti
inginocchiare, schiaffeggiati». Sulla combriccola cala silenzio. Non ha tutti
evidentemente piace ricordare questi episodi, soprattutto davanti a un
giornalista. F.L. è un maresciallo appena uscito dall'accademia di Modena.
Vota a sinistra «forse sono l'unico bersagliere che vota a sinistra della
caserma» dice sorridendo mentre i commilitoni lo prendono in giro. «E gli
italiani?» «Degli italiani preferirei lasciar perdere...».
I bersaglieri invece vogliono parlare, basta poco per tirare il tappo e far
uscire ciò che ingorga le loro coscienze da tempo. Gli altri ragazzi tacciono.
F.L. e C.L. caporale maggiore iniziano a raccontare un episodio visto con i
loro occhi. «Alcuni nostri commilitoni si divertivano a circondare le case di
alcuni sospetti, dargli fuoco e guardare bruciare la casa. Poi spegnevano e
arrestavano questa gente che risultava la maggior parte delle volte del tutto
innocente». Gli domandiamo se hanno denunciato quanto hanno visto «In modo
informale» risponde F.L. Che significa? «Che non risulta una mia denuncia
formale - continua- ne ho parlato con i superiori e basta. Se avessi
denunciato formalmente, la mia carriera sarebbe finita lì. Preferisco cambiare
le cose da dentro e senza clamore. Ci tengo all'Esercito, io sono un
bersagliere». P.E. dice che lui non ha visto mai violenze degli italiani e
racconta: «Gli americani appena entrano in una casa pensano ad accanirsi su
chi ci abita, gli italiani invece al massimo prendono tutto ciò che c'è da
prendere. Un amico è riuscito a fregarsi due orologi e quattro spille d'oro».
Eppure si vedono solo immagini di arresti in case di fango, in stamberghe,
arresti di individui che non hanno altro che il proprio rinsecchito corpo. «Io
dice C.L. ho fatto perquisizioni in case di ex dirigenti di polizia e di due
imprenditori vicini a Saddam. Avevano in casa di tutto, orologi d'oro, dvd,
televisori, lampadari di cristallo, un parco macchine da paura. Durante la
caduta di Saddam avevano le guardie private che non facevano entrare i
disperati e gli Usa non li arrestarono, i dirigenti non li arrestarono
sperando che passassero dalla loro parte. Qualcuno l'ha fatto ma a suon di
calci in pancia e sberle...». Anche gli italiani hanno pestato? «Io - risponde
P.E.- non ho mai visto picchiare come ho visto fare ai marines nessun
italiano. Mai». E aggiunge scherzando: «Neanche in Italia».
Senza
legge a Nassiriya «Arrestavamo tutti, vecchi, donne, bambini per fare
numero, per dimostrare che combattevamo i terroristi. Ma poi dovevamo star
fermi, anche davanti al traffico di armi, per non provocare la guerriglia.
Come quando venne Berlusconi». Il racconto dei militari della Garibaldi
tornati dall'Iraq
«Mi hanno addestrato a rispettare le persone. Io sono
andato in Iraq per fare il mio dovere e il mio dovere non è arrestare
ragazzini e mettere le manette ai polsi a vecchi signori che somigliano a mio
nonno». E' arrabbiato il caporale della brigata Garibaldi che vuole rimanere
anonimo per paura di ritorsioni, quasi gli salgono le lacrime agli occhi.
«Ogni mattina ci dicevano di andare a sud e pattugliare. Col tempo e con i
rimproveri e le punizioni abbiamo capito che se non tornavamo con un
sostanzioso gruppo di fermati per noi non sarebbe stata vita facile in Iraq».
Come venivano scelte le persone da arrestare?. «Entravamo in case dove non
bisogna neanche sfondare la porta, basta spingerla con un dito per farla
cadere. Non esisteva un criterio. Prendi quelli che ti capitano, se giovani
uomini meglio, ma anche donne sole». Perché donne sole? «Se mogli, sorelle,
madri di guerriglieri possono dare qualche informazione». «Io capisco
l'arresto - dice N.F. bersagliere pugliese - perché i terroristi sicuramente
sono gente normale, anche anziani magari, ma quello che non capisco sono i
modi con cui li dobbiamo ammanettare, mettere il cappuccio contro i morsi,
perquisire anche le donne che non nascondono nulla ed appena ti avvicini
iniziano a piangere». Il bersagliere si ferma e si allontana, non vuol
raccontare di più. Continua il caporale: «Quando li portiamo al comando questi
non dicono nulla. l'interprete inventa tutto lui e questo lo posso assicurare
perché sia uomini che donne che ragazzini davanti all'autorità militare
rimangono pietrificati, zitti. Terrorizzati non dicono niente di niente, a
stento il loro nome». Torture, violenze? «Mai. Né schiaffi, né pugni, niente.
Non ho mai visto niente di tutto questo. Nessuna tortura, del resto si vede in
faccia che questi non sanno niente. Li si arresta, li si fa stare
inginocchiati per tutta la mattina con le mani legate dietro la schiena. Senza
motivo. Gli ufficiali dicono che è la prassi. Io alla Garibaldi non ho avuto
questo insegnamento». «Bisogna capire - ricorda il caporale - che non è di
nostra competenza arrestare e fermare gente. Ma serve. Serve agli alti
ufficiali, serve a mostrare che teniamo sotto controllo il territorio, serve
ai nostri superiori, ai tenenti che se ne stanno dietro il computer, serve per
dimostrare che conosciamo i terroristi dell'intera provincia di Dhi Qar. Non è
vero nulla. Qui il 90% della gente non ha neanche la forza di fare il
terrorista, da qui passano i guerriglieri e le armi ma appena c'è un po' di
movimento noi veniamo tolti di mezzo». I ragazzi descrivono una situazione in cui appena c'è la
possibilità di interrompere una reale operazione di guerriglia i superiori
decidono di battere in ritirata. Un atteggiamento che piuttosto esser definito
come sana scelta di prudenza sembra frutto di una precisa strategia politica
decisa ad annullare il rischio perdite. «Io personalmente - dice C.L. caporal
maggiore - avevo segnalato tempo fa sulla strada che porta a nord di Nassiryia
dei camion sospetti, perché non avevano né il segno della mezzaluna né della
croce rossa, e in più erano piccoli rispetto ai camion usati per gli aiuti. Ma
ci fu impedito di intervenire». «Preferiscono farci stare tranquilli, però
così ci esponiamo di più al terrorismo. Se stiamo fermi, se lasciamo agire
prima o poi ci colpiranno, come hanno già fatto. Ma se non abbiamo la forza di
contrastare la guerriglia non ci dovevano proprio far venire». Interviene
l'anonimo caporale: «Io sparo per primo. Se vedo uno con un fucile non urlo di
buttarlo a terra, io sparo. Noi diciamo sempre meglio un cattivo processo che
un buon funerale. Ma qui ho imparato a stare attento, quelli che il comando
dice essere terroristi e che quindi vai ad arrestare con il fuoco in pancia
risultano essere dei poveracci, magari ex poliziotti o ex militari. Gente
innocua».
«Quando è venuto Berlusconi a Nassiriya - continua
l'anonimo caporale - ogni soldato aveva l'ordine di pattugliare, ma di non
intervenire mai. Non arrestare, non rompere le palle a nessuno. Se tu non
tocchi la guerriglia la guerriglia non tocca te. In quei giorni avemmo notizia
anche di un passaggio di armi verso Tallil, rischiosissimo perché
strategicamente è un nostro punto di forza, ma non intervenimmo, non bisognava
infastidirli. I terroristi non avrebbero dato fastidio all'arrivo di
Berlusconi se noi non davamo fastidio alle loro operazioni. E così è stato». I
ragazzi sono rimasti sconvolti dall'attentato di Nassiriya. «Non dimenticherò
mai», dice C.L. «Ho la foto di tutti i morti nel portafoglio», aggiunge il
caporale. «Ma è ovvio - dice C.L. - che se continuiamo a stare fermi
diventeremo bersaglio sempre più facile».
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