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Che cos’era il gruppo di Gelli? Che cosa fanno oggi i suoi
membri?
Ecco la storia della loggia e le «pagine gialle» della Propaganda 2,
mentre il suo affiliato pi˜ noto punta alla presidenza del Consiglio
di Gianni Barbacetto
La notizia la dà il telegiornale
della notte: la
presidenza del Consiglio dei ministri ha deciso di rendere pubblici
gli elenchi della loggia massonica P2, l’associazione segreta che il
Maestro venerabile Licio Gelli chiama «l’Istituzione». È il 20
maggio 1981, vent’anni fa. L’Italia è scossa: di quella loggia
misteriosa si parla ormai da molto tempo, ma ora i suoi componenti
prendono un nome e un volto. E gli italiani scoprono che esiste un
potere sotterraneo, un governo parallelo, uno Stato nello Stato.
Negli elenchi della loggia sono iscritti i nomi di quattro ministri
o ex ministri, 44 parlamentari, tutti i vertici dei servizi segreti,
il comandante della Guardia di finanza, alti ufficiali dei
Carabinieri, militari, prefetti, funzionari, magistrati, banchieri,
imprenditori, direttori di giornali, giornalisti...
Una settimana dopo, il governo presieduto da Arnaldo Forlani dà
le dimissioni. Nasce il primo governo laico della storia d’Italia,
guidato da Giovanni Spadolini. è varata una commissione parlamentare
d’inchiesta sulla loggia di Gelli, sotto la presidenza di Tina
Anselmi. è approvata una legge dello Stato che vieta le associazioni
segrete e scioglie la P2. I capi dei servizi di sicurezza sono tutti
licenziati. Qualche piduista ha la carriera bloccata, qualcuno
subisce procedimenti disciplinari, una ventina di affiliati finisce
sotto processo. I magistrati aprono indagini sulla loggia, con
l’ipotesi che abbia realizzato una cospirazione politica contro le
istituzioni della Repubblica.
Ma oggi, vent’anni dopo, che cosa è restato di quel terremoto? Dove
sono, che cosa fanno i membri del club P2? Il più noto di essi, che
vent’anni fa era soltanto un giovane, brillante palazzinaro, ora
spera di diventare nientemeno che presidente del Consiglio. Ecco
dunque la storia dimenticata dell’«Istituzione» che ha segnato
alcuni decenni della storia italiana.
Da Sindona alla P2. Nella seconda metà degli anni Settanta
qualche articolo di giornale aveva accennato all’esistenza di una
loggia massonica potentissima e misteriosissima. Ombre, sospetti,
dicerie? Nel 1980 il consigliere istruttore di Milano Antonio Amati
deve aprire due inchieste giudiziarie: una sull’assassinio
dell’avvocato milanese
commissario liquidatore delle banche di
Michele Sindona, Giorgio Ambrosoli,
ucciso a Milano l’11 luglio 1979; l’altra sullo strano rapimento di
Sindona, scomparso da New York il 2 agosto 1979 e poi ricomparso il
16 ottobre. Nessuno allora avrebbe pensato che quelle inchieste
avrebbero portato alla P2.
Amati assegna i due fascicoli, insieme, a due giovani
magistrati. Il primo, più esperto, si chiama Giuliano Turone, baffi
curati e dita sottili, irrequieto e rigorosissimo. Dopo il liceo
Manzoni di Milano, dopo un anno negli Stati Uniti, dopo la laurea in
legge, era stato tentato dalla carriera diplomatica. Ma aveva scelto
la magistratura: perché il diplomatico deve limitarsi a eseguire la
politica estera del suo governo, mentre il magistrato decide e
giudica, con il solo aiuto della legge e della sua coscienza.
Affascinato dalla geometria dell’indagine, aveva voluto diventare
giudice istruttore, figura mista (oggi cancellata dal nuovo codice)
di giudice e investigatore. Poco più che trentenne, era entrato di
persona nel covo-prigione di uno dei primi sequestrati italiani,
l’imprenditore Luigi Rossi di Montelera; e nel 1974 aveva fatto
arrestare il responsabile, un ometto siciliano che abitava in via
Ripamonti 84, a Milano, e che sulla carta d’identità aveva scritto
Luciano Leggio, anche se era già noto come boss di Cosa nostra con
il nome di Luciano Liggio.
Gherardo Colombo, il secondo magistrato, era invece un
giovanotto che arrivava a palazzo di giustizia con i jeans e la
camicia senza cravatta, e sopra gli occhiali aveva una gran corona
di capelli refrattari al pettine. Era cresciuto in una grande casa
sui colli della Brianza, padre medico e un po’ poeta, nonno e
bisnonno avvocati. Amava i giochi di logica e il bridge. Parlava con
aria apparentemente svagata, accompagnando le parole con brevi gesti
secchi della mano, che poi spesso lasciava così, sospesa a
mezz’aria. Per nove mesi, Turone e Colombo lavorano sodo. Macinano
insieme decine e decine di interrogatori, perquisizioni, indagini
bancarie. Sono letteralmente risucchiati da un’inchiesta che è un
giallo appassionante, pieno di misteri e di colpi di scena. «Era un
tessuto dai cento fili intrecciati», secondo Turone, «così abbiamo
cominciato col tirare i fili che sporgevano dalla trama».
Il sequestro di Sindona: strano, con quella improbabile
rivendicazione del «Gruppo proletario di eversione per una giustizia
migliore». Strani anche gli affidavit (dichiarazioni giurate) che
una decina di persone invia negli Stati Uniti, ai magistrati
americani, per testimoniare che il povero Sindona, che ha fatto
bancarotta e ha lasciato sul lastrico centinaia di clienti, è
perseguitato dai magistrati italiani soltanto per la sua fede
anticomunista. Uno degli affidavit è firmato da un certo
Licio Gelli. Dice: «Nella mia qualità di uomo d’affari sono
conosciuto come anticomunista e sono al corrente degli attacchi dei
comunisti contro Michele Sindona. è un bersaglio per loro e viene
costantemente attaccato dalla stampa comunista. L’odio dei comunisti
per Michele Sindona trova la sua origine nel fatto che egli è
anticomunista e perché ha sempre appoggiato la libera impresa in
un’Italia democratica». La prosa non è un granché, ma l’ossessione
anticomunista è ben presente (e allora, almeno, i comunisti c’erano
davvero...).
Licio Gelli, fascista e massone.
Chi è questo Gelli? - si
chiedono Turone e Colombo. Quasi sconosciuto, allora, dal grande
pubblico, era il Maestro Venerabile della loggia massonica
Propaganda 2, che riuniva la crema del potere italiano. C’era la
fila, per ottenere udienza da Gelli nella sua suite all’hotel
Excelsior, in via Veneto, a Roma. La loggia era segreta, per non
mettere in imbarazzo i suoi potenti iscritti, dispensati anche dalle
ritualità massoniche. Bastava la sostanza.
Gelli era arrivato al vertice della P2 dopo una onorata carriera
come fascista, simpatizzante della Repubblica di Salò,
doppiogiochista con la Resistenza, collaboratore dei servizi segreti
inglesi e americani, infine agente segreto della Repubblica
italiana. Volonteroso funzionario del Doppio Stato: soldato, come
tanti altri fascisti e nazisti, arruolato nell’esercito invisibile
che gli Alleati avevano approntato, dopo la vittoria contro Hitler e
Missolini, per combattere la «guerra non ortodossa» contro il
comunismo. Entrato nella massoneria, aveva contribuito a
selezionare, dentro l’esercito, gli ufficiali anticomunisti disposti
ad avventure golpiste. Nel colpo di Stato (tentato) del 1970 aveva
avuto un ruolo di tutto rispetto: suo era l’incarico di entrare al
Quirinale e trarre in arresto il presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat, quello che mandava telegrammi a raffica che
finivano sempre con un bel «viva la Resistenza, viva l’Italia». Poi
il golpe non ci fu, sospeso forse dagli americani, ma la «guerra non
ortodossa» continuò, con una serie di stragi che insanguinarono
l’Italia.
Fino al 1974, anno di svolta. Allora la strategia della
guerra segreta contro il comunismo cambiò: basta con la
contrapposizione diretta, con i progetti apertamente golpisti,
sostituiti da una più flessibile occupazione, attraverso uomini
fidati, di tutti gli ambiti della società, di tutti i centri di
potere. La massoneria (o almeno una parte di essa) fornisce le
strutture e le coperture necessarie a organizzare questo club del
Doppio Stato, questo circolo dell’oltranzismo atlantico. Nasce la P2
di Licio Gelli. In cui poi, all’italiana, entrano anche (e per
alcuni soprattutto) le protezioni, le carriere, gli affari e gli
affarucci. Ma tutto ciò, tra il 1980 e il 1981, Turone e Colombo
ancora non lo sapevano, non lo immaginavano neanche. I due andavano
avanti per la loro strada, a districare i misteri del caso Sindona.
La perquisizione fatale. Scoprono che Sindona non è stato
rapito, ma ha organizzato una messa in scena per sparire dagli Stati
Uniti e arrivare in Italia, in Sicilia. Scoprono che è lui a
trattare il salvataggio delle sue banche con Giulio Andreotti, a
minacciare il presidente della Mediobanca Enrico Cuccia (che si
oppone al piano di risanamento), è lui a far uccidere Giorgio
Ambrosoli, nella notte dell’11 luglio 1979, con tre colpi di 357
magnum sparati al petto da un sicario che viene dagli Stati Uniti. A
ospitare Sindona a Palermo, in quell’estate di scirocco e di sangue,
è un medico italoamericano: Joseph Miceli Crimi, massone, esperto di
riti esoterici e di chirurgie plastiche. è lui che spara alla gamba
del banchiere, con sapienza clinica, per cercare di rendere
credibile il rapimento. I due giudici istruttori gli sequestrano
alcune carte e, tra queste, uno stupido biglietto ferroviario Palermo-Arezzo, usato da Miceli Crimi nell’estate del 1979. Domanda:
perché un viaggio dalla Sicilia ad Arezzo? Risposta: «Per andare dal
dentista presso cui ero in cura». Fantasiosa, ma i due milanesi non
abboccano. Miceli Crimi, messo alle strette, ammette: ma sì, sono
andato da un certo Licio Gelli, per discutere con lui la situazione
di Sindona. Questo Gelli comincia proprio a incuriosire i due
giudici istruttori. I personaggi che si muovono attorno a Sindona e
si danno da fare per salvarlo, scoprono Turone e Colombo, finiscono
tutti per arrivare a Gelli: Rodolfo Guzzi, l’avvocato del
bancarottiere; Pier Sandro Magnoni, suo genero; Philip Guarino e
Paul Rao, due massoni che incontrano il Venerabile poche ore dopo
essere stati ricevuti da Giulio Andreotti. Ecco perché, nel marzo
1981, i giudici milanesi ordinano una perquisizione di tutti gli
indirizzi del Venerabile. «Cautela assoluta», ricorda Colombo,
«avevamo intuito che per ottenere risultati dovevamo procedere con
la massima segretezza». La sera di lunedì 16 marzo 1981 una
sessantina di agenti della Guardia di finanza si muove da Milano
verso i quattro indirizzi di Gelli annotati su una agenda di Sindona
sequestrata al banchiere dalla polizia di New York: villa Wanda di
Arezzo, l’abitazione privata; la suite all’Excelsior dove riceveva
autorità, politici, postulanti; un’azienda di Frosinone; e gli
uffici di una fabbrica d’abbigliamento, la Giole di Castiglion
Fibocchi.
L’incarico delle perquisizioni è affidato a un uomo di cui
Turone e Colombo conoscono la lealtà istituzionale, il colonnello
della Guardia di finanza Vincenzo Bianchi. Ha l’ordine di agire
senza informare nessuno e senza avere alcun contatto con le autorità
locali, i carabinieri, la polizia, la magistratura del posto,
neppure i comandi della Guardia di finanza. I suoi finanzieri,
arrivati in Toscana, non passano la notte nella caserma di Arezzo,
ma si disperdono in diverse località lì attorno. Per tutti,
l’appuntamento è all’alba del 17 marzo.
Scatta la perquisizione. Nessun risultato a Roma. Niente a villa
Wanda. L’azienda di Frosinone è un vecchio indirizzo. Alla Giole,
invece, c’è una montagna di carte. Gelli non si trova, è a
Montevideo. Ma la sua segretaria, Carla, protegge con vigore i
documenti stipati nella scrivania, nei cassetti, nella cassaforte,
in una valigia... Nella cassaforte ci sono gli elenchi della loggia
segreta. «Sequestrate tutto», ordinano, per telefono, i giudici
istruttori. La perquisizione è ancora in corso quando a Bianchi
arriva via radio una chiamata del generale
Orazio Giannini, comandante della Guardia di finanza: c’è
anche il suo nome, in quegli elenchi, come quello del suo
predecessore, il generale Raffaele Giudice,
come quello del capo di stato maggiore della Finanza, il generale
Donato Lo Prete. E il comandante delle Fiamme gialle di
Arezzo, e una folla di generali, colonnelli, maggiori...
Verso il porto delle nebbie. Tutte le carte sono portate a
Milano. Turone e Colombo le catalogano, personalmente, pagina per
pagina. Ne fanno due copie. L’originale entra nel fascicolo
dell’inchiesta; la prima copia è affidata ai finanzieri, con
l’incarico di conservarla in un luogo sconosciuto agli stessi
giudici; la seconda è nascosta, sotto una falsa intestazione
(«Formazioni comuniste combattenti») tra i fascicoli di un collega
di cui i due si fidano, il giudice Pietro Forno. Non si sa mai.
Fuori dal palazzo di giustizia di Milano, intanto, nessuno sa delle
carte sequestrate a Gelli. Eppure qualcuno sta lavorando
febbrilmente per parare il colpo. La notizia comincia a trapelare.
La dà, per primo, il telegiornale Rai la sera del 20 marzo. Ma non è
chiaro quali documenti siano stati trovati dai giudici. Il giorno
dopo, sabato 21 marzo, il Giornale (allora diretto da Indro
Montanelli) scrive: «Nell’ambito delle indagini per l’affare
Sindona, stasera si è appresa una doppia operazione compiuta dalla
magistratura di Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di
Licio Gelli, Venerabile Maestro della loggia massonica P2. Per conto
dei giudici milanesi l’intervento sarebbe stato operato dalla
Guardia di finanza, mentre Roma avrebbe partecipato agli
accertamenti attraverso il sostituto procuratore della Repubblica
Sica». Strana notizia: il ritrovamento non è avvenuto a villa Wanda
ma alla Giole di Castiglion Fibocchi; e soprattutto Domenico Sica,
detto «Rubamazzo», per ora non c’entra nulla. Ma basteranno poche
settimane e Roma arriverà ad avverare la profezia del Giornale e a
strappare l’indagine ai magistrati milanesi.
Turone e Colombo, consci del peso istituzionale della loro
scoperta, decidono che è loro dovere informare il capo dello Stato:
ma il presidente Sandro Pertini è all’estero, così ripiegano sul
capo del governo, Arnaldo Forlani. Si recano a Roma il 25 marzo,
l’appuntamento è fissato alle ore 16 a Palazzo Madama. Aspettano per
due ore. Poi la segreteria di Forlani comunica che c’è stato un
equivoco, che il presidente li aspetta a Palazzo Chigi. I due
giudici si spostano lì. Ad accoglierli è il capo di gabinetto di
Forlani. «Ci siamo guardati negli occhi in silenzio», ricorda
Colombo, «il funzionario davanti a noi era il prefetto
Mario Semprini, tessera P2 1637». Forlani è cortese, chiede
se le carte trovate possono essere non autentiche. I due giudici gli
mostrano una firma autografa del ministro della Giustizia
Adolfo Sarti sulla domanda d’iscrizione alla loggia.
Chiedono: «Signor presidente, avrà certamente un documento
controfirmato dal suo ministro Guardasigilli...». Forlani ne prende
uno, confronta i due fogli, si convince. «Datemi tempo di
riflettere», conclude Forlani. «Di solito offro agli ospiti di
riguardo un aereo dei servizi per tornare a casa. Mi pare che questa
volta non sia il caso».
Forlani tira in lungo. Non vuole prendersi la responsabilità di
rendere pubblici gli elenchi. Cerca di scaricarla sui giudici
milanesi. Sui giornali del 20 maggio i titoli confermano quella
sensazione: «Forlani: spetta ai giudici togliere il segreto sulla
P2». Turone, Colombo e il capo dell’ufficio Amati inviano
immediatamente una lettera al presidente del Consiglio, in cui
sostengono che sono coperti dal segreto istruttorio i verbali delle
deposizioni dei testimoni che stanno sfilando davanti a loro, ma non
«il restante materiale trasmesso». Forlani capisce che non può più
aspettare. Le liste di Gelli sono rese pubbliche.
Oltre agli elenchi degli affiliati e alla documentazione sulla
loggia, tra le carte sequestrate vi sono 33 buste sigillate con
intestazioni diverse: «Accordo Eni-Petromin», «Calvi Roberto
vertenza con Banca d’Italia», «Documentazione per la definizione del
gruppo Rizzoli», «On. Claudio Martelli»...
C’erano già, in quelle carte, i segreti di Tangentopoli, del Conto
Protezione e di tanto altro ancora. Ma i tempi non erano maturi. Da
Roma si muovono il giudice istruttore Domenico Sica (detto
«Rubamazzo») e il procuratore della Repubblica Achille Gallucci.
Sollevano il conflitto di competenza e la Cassazione, il 2 settembre
1981, strappa l’inchiesta a Milano per affidarla a Roma. Non
sviluppata, l’indagine si spegne. «Mi è arrivata sulla scrivania già
morta», dice Elisabetta Cesqui, il pubblico ministero che eredita
l’indagine. L’accusa di cospirazione politica contro le istituzioni
della Repubblica mediante associazione cade: tutti i rinviati a
giudizio (pochi: qualche capo dei 17 gruppi in cui la P2 era divisa,
più Gelli e i responsabili dei servizi segreti) sono prosciolti, e
comunque il processo arriva in Cassazione quando ormai è troppo
tardi e per tutti scatta la prescrizione.
Più utile il lavoro della Commissione parlamentare presieduta da
Tina Anselmi, che dichiara le liste della P2, con 972 nomi,
«autentiche» e «attendibili», ma incomplete. E con anni di lavoro
produce un materiale immenso e prezioso, la documentazione di come
funzionava una potentissima macchina di eversione e di potere. Ma
nel 1981 le speranze - o le paure - erano altre: una parte del Paese
sperava che lo scandalo P2 avviasse il rinnovamento della vita
politica e istituzionale; un’altra temeva che il proprio potere si
incrinasse per sempre. Sbagliavano gli uni e gli altri.
Tessera numero 1816. Oggi il più noto degli iscritti alla
P2 è Silvio Berlusconi, tessera numero
1816. Per la P2 Berlusconi ha subito la sua prima condanna, ormai
definitiva: per falsa testimonianza. Nel 1990, a Venezia, viene
infatti giudicato colpevole di aver giurato il falso davanti ai
giudici, a proposito della sua iscrizione alla loggia. L’anno prima,
però, c’era stata una provvidenziale amnistia.
Quando parla della P2, Berlusconi se la cava, di solito, con qualche
battuta. Eppure l’iscrizione alla loggia è stata determinante per i
suoi primi affari immobiliari. Per esempio per ottenere credito
dalla Banca nazionale del lavoro (controllata dalla P2, con ben otto
alti dirigenti affiliati) e dal Monte dei Paschi di Siena (era
piduista il direttore generale Giovanni Cresti).
Conclude la Commissione Anselmi: gli imprenditori Silvio Berlusconi
e Giovanni Fabbri (il re della carta) «trovarono appoggi e
finanziamenti al di là di ogni merito creditizio». Ma poi, fatte le
case, bisogna venderle. E non fu facile, per Berlusconi. Lo
soccorse, agli inizi della sua carriera di immobiliarista, un
«fratello» della loggia segreta, il napoletano
Ferruccio De Lorenzo, già sottosegretario liberale in un
governo Andreotti e padre di Francesco, futuro ministro della Sanità
e imputato di Mani pulite: Ferruccio De Lorenzo acquistò, come
presidente dell’Enpam (l’Ente nazionale previdenza e assistenza dei
medici italiani) prima due hotel a Segrate, poi decine di
appartamenti di Milano 2. L’Enpam decise poi di affidare a
Berlusconi anche la gestione del teatro Manzoni di Milano,
controllato dall’ente.
Quando Gelli parla di Berlusconi, è lapidario: «Ha preso il
nostro Piano di rinascita e lo ha copiato quasi tutto», dichiara
all’Indipendente nel febbraio 1996. Il Piano di rinascita
democratica era il programma politico della P2. Fu sequestrato il 4
luglio 1981 all’aeroporto di Fiumicino, nel doppiofondo di una
valigia di Maria Grazia Gelli, figlia del Venerabile. Riletto oggi,
risulta profetico. Prevede, infatti, di «usare gli strumenti
finanziari per l’immediata nascita di due movimenti l’uno sulla
sinistra e l’altro sulla destra». Tali movimenti «dovrebbero essere
fondati da altrettanti club promotori». Nell’attesa, il Piano
suggerisce che con circa 10 miliardi è possibile «inserirsi
nell’attuale sistema di tesseramento della Dc per acquistare il
partito». Con «un costo aggiuntivo dai 5 ai 10 miliardi» si potrebbe
poi «provocare la scissione e la nascita di una libera
confederazione sindacale». Per quanto riguarda la stampa, «occorrerà
redigere un elenco di almeno due o tre elementi per ciascun
quotidiano e periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro»;
«ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di
simpatizzare per gli esponenti politici come sopra». Poi bisognerà:
«acquisire alcuni settimanali di battaglia», «coordinare tutta la
stampa provinciale e locale attraverso un’agenzia centralizzata»,
«coordinare molte tv via cavo con l’agenzia per la stampa locale»,
«dissolvere la Rai in nome della libertà d’antenna»; «punto chiave è
l’immediata costituzione della tv via cavo da impiantare a catena in
modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del Paese».
Tecnologia a parte: preveggente, no?
La giustizia va ricondotta «alla sua tradizionale funzione di
equilibrio della società e non già di eversione». Per questo, è
necessaria la separazione delle carriere del pubblico ministero e
dei giudici, «l’istruzione pubblica dei processi nella dialettica
fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti», la
«riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere
responsabile verso il Parlamento». Molto è già stato realizzato. Per
il resto si vedrà.
Che fine hanno fatto gli altri «fratelli» di loggia? Alcuni hanno
fatto proprio una brutta fine. Sindona, dopo essere stato condannato
per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, è morto in carcere, per una
tazzina di caffè al veleno. Il suo successore nella finanza
d’avventura, Roberto Calvi, tessera
numero 1624, ha gettato la più grande banca italiana, il Banco
Ambrosiano, nelle braccia della P2 che gli ha sottratto un fiume di
miliardi e l’ha fatto finire in bancarotta; alla fine, il 18 giugno
1982, è stato trovato penzolante sutto il ponte dei Frati neri, a
Londra. Mino Pecorelli, tessera 1750,
giornalista in contatto con i servizi segreti, direttore di Op e
piduista anomalo che voleva giocare in proprio, è stato crivellato
di colpi nella sua automobile, il 20 marzo 1979.
La loggia multinazionale. Gelli è agli arresti domiciliari
a villa Wanda, condannato per il crac del Banco Ambrosiano. Molti
degli affiliati, il nocciolo duro del club dell’oltranzismo
atlantico, sono stati coinvolti in vicende di eversione, stragi,
tentati colpi di Stato, depistaggi. Così Vito
Miceli, Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Giuseppe Santovito,
Giovanni Fanelli, Antonio Viezzer, Umberto Federico D’Amato,
Giovanbattista Palumbo, Pietro Musumeci, Elio Cioppa, Manlio Del
Gaudio, Giovanni Allavena, Giovanni Alliata di Montereale, Giulio
Caradonna, Edgardo Sogno... Ci vorrebbe almeno un libro per
ciascuno, per raccontare la multiforme attività di questi fedeli
servitori del Doppio Stato.
Organizzazione multinazionale, la P2 aveva affiliati che operavano
in Sudamerica: Uruguay, Brasile e soprattutto Argentina. In
Argentina, dove Gelli aveva rapporti molto stretti con i servizi
segreti, aveva arruolato nella loggia l’ammiraglio
Emilio Massera, capo di Stato maggiore della Marina,
Josè Lopez Rega, ministro del Benessere
sociale di Juan Domingo Peron, Alberto Vignes,
ministro degli Esteri, l’ammiraglio Carlos
Alberto Corti e altri militari.
Pochi del club P2 sono stati messi davvero fuori gioco dallo
scandalo che seguì la pubblicazione degli elenchi. I magistrati
(unica categoria che reagì con decisione) furono giudicati e
sanzionati dal Consiglio superiore della magistratura. Ma ciò non
toglie che uno dei magistrati iscritti alla P2,
Giuseppe Renato Croce, tessera numero 2071, oggi giudice per
le indagini preliminari a Roma, con arzigogoli procedurali stia
dando ragione a Marcello Dell’Utri in una delle tante contese
giudiziarie che il braccio destro di Berlusconi ha aperte.
Molti dei piduisti sono stati messi da parte dagli anni e dall’età.
Ma chi resiste all’azione del ciclo biologico non se la cava poi
tanto male. Tra i giornalisti (di allora),
Gustavo Selva è parlamentare di An;
Maurizio Costanzo è direttore di Canale 5 e uomo
politicamente trasversale, anche se sempre dalla parte di Berlusconi
nei momenti cruciali; Massimo Donelli è
direttore della nuova tv del Sole 24 ore.
Roberto Gervaso continua a scrivere un fiume di articoli e di
libri e nessuno si ricorda più di una simpatica lettera che inviò,
tanto tempo fa, a Gelli: «Caro Licio, ho chiesto a
Di Bella (direttore del Corriere della sera quando era nelle
mani della P2, ndr) di farmi collaborare. è bene che tutti capiscano
che bisogna premiare gli amici. Oggi Di Bella parlerà della mia
collaborazione con Tassan Din
(direttore generale del Corriere, piduista come l’editore del
Corriere, Angelo Rizzoli, ndr). Vedi di fare, se puoi, una
telefonata a Tassan Din, affinchè non mi metta i bastoni tra le
ruote». Più defilato Paolo
Mosca, ex direttore della Domenica del
Corriere. Gino Nebiolo, all’epoca
direttore del Tg1, è stato mandato da Letizia Moratti a dirigere la
sede Rai di Montevideo (una capitale della P2) e oggi scrive sul
Foglio di Giuliano Ferrara. Franco Colombo,
ex corrispondente della Rai a Parigi e aspirante piduista, oggi ha
cambiato mestiere: è vicepresidente della società del Traforo del
Monte Bianco e si sta dando molto da fare per gli appalti che devono
riaprire il tunnel. Alberto Sensini
(aspirante piduista, come Colombo) scrive di politica sui giornali.
Tra i politici, Pietro Longo,
segretario del Partito socialdemocratico, divenne il simbolo
negativo del piduista con cappuccio. Ma a tanti altri è andata
meglio.
Publio Fiori
(tessera 1878), ex
deputato democristiano, è trasmigrato in An e nel 1994 è diventato
ministro di Berlusconi. Una poltrona di ministro è già capitata,
durante il governo Berlusconi, anche ad
Antonio Martino (anch’egli a Gelli aveva solo presentato la
domanda d’iscrizione). Invece Duilio
Poggiolini (tessera 2247), ex ministro democristiano della
Sanità, ha avuto la carriera stroncata non dalla P2, ma dai lingotti
d’oro di Tangentopoli trovati nel pouf del salotto.
Massimo De Carolis (tessera P2 1815, solo un numero in meno
di quella di Berlusconi), negli anni Settanta era democristiano e
leader della «Maggioranza silenziosa», oggi è tornato alla politica
sotto le bandiere di Forza Italia e grazie al rapporto diretto con
Berlusconi ha ottenuto la presidenza del Consiglio comunale di
Milano e la promessa di una candidatura in Parlamento. Le ha dovuto
abbandonare entrambe, dietro la ferma insistenza del sindaco
Gabriele Albertini, dopo essere stato coinvolto in alcuni scandali.
è accusato, tra l’altro, di aver chiesto 200 milioni per rivelare
notizie riservate a una azienda partecipante a una gara per un
appalto a Milano. Ma il fatto curioso è che, insieme a De Carolis,
nel processo in corso a Milano sia coinvolta un’altra vecchia
conoscenza della P2: Luigi Franconi
(tessera P2 numero 1778). I rapporti solidi resistono nel tempo.
Politica & affari. Un banchiere iscritto alla P2, certo
meno noto di Sindona e Calvi, era Antonio D’Alì,
proprietario della Banca Sicula e datore di lavoro di boss di mafia
come i Messina Denaro. Oggi ha passato la mano al figlio, Antonio D’Alì
jr, eletto senatore a Trapani nelle liste di Forza Italia.
Angelo Rizzoli, che si fece sfilare di mano il Corriere dalla
compagnia della P2, oggi fa il produttore cinematografico.
Roberto Memmo (tessera 1651),
finanziere che tanto si diede da fare per salvare Sindona, oggi è
buon amico di Marcello Dell’Utri, di Cesare Previti e del giudice
Renato Squillante, che incontrava insieme, e dirige la Fondazione
Memmo per l’arte e la cultura, con sede a Roma nel Palazzo Ruspoli.
Rolando Picchioni (tessera 2095),
torinese, ex deputato dc, coinvolto (ma assolto) nello scandalo
petroli, oggi è in area Udeur ed è segretario generale del Salone
del libro di Torino. Giancarlo Elia Valori,
unico caso di piduista espulso dalla loggia perché faceva troppa
concorrenza al Venerabile Maestro, oggi è presidente
dell’Associazione industriali di Roma, infaticabile scrittore di
libri e instancabile tessitore di rapporti e di alleanze.
Vittorio Emanuele di Savoia (tessera 1621) è un curioso caso
di uomo off-shore: non può rientrare in Italia, ma in Italia fa
business, seppure attraverso società estere. Ora vorrebbe poter
rientrare definitivamente, anche se nei fatti non ne è mai stato
fuori, a giudicare dai suoi affari e traffici (d’armi): nei decenni
scorsi è stato, anche grazie alla sua integrazione nel club P2,
mediatore d’affari all’estero per conto di aziende italiane (Agusta)
e addirittura di Stato (Italimpianti, Condotte...), quello stesso
Stato sul cui territorio non poteva mettere piede. Di Berlusconi ha
detto (era il 1994): «è un buon manager, può rimettere ordine
nell’economia italiana». Come? Per esempio «cancellando quel
disastro» che è «lo Statuto dei lavoratori, con il divieto di
licenziamento». Apprezzamenti naturali, tra compagni di loggia. Ma
con un finale obbligato per il principe: «Io? Non faccio politica».
Vittorio Emanuele non vota, ma c’è da scommetterci che tifa per
Berlusconi, che potrà farlo finalmente rientrare in Italia, questa
volta anche fisicamente.
Vent’anni dopo, in Italia è tempo di revisioni. Anche sulla P2.
è stato un legittimo club di amiconi, magari con qualcuno che ne
approfittava un po’ per fare affari. Gelli? Un abile traffichino che
millantava poteri che in realtà non aveva. Ma era proprio questo, la
P2? Vista con distacco, appare invece il luogo più attivo per
l’elaborazione di strategie di potere del grande partito atlantico
in Italia, almeno tra il 1974 e il 1981. Centro d’incontro tra
politica, affari, ambienti militari. Nella loggia segreta è
confluito il partito del golpe, reduce della stagione delle stragi
1969-74, ma con una nuova strategia, più flessibile, più attenta
alla politica. E ai soldi, che possono comprarla: come suggerisce,
appunto, il Piano di rinascita.
E oggi? La fase, naturalmente, è nuova. La società è cambiata.
Anche gli uomini alla ribalta sono, in buona parte, diversi. Ma
nella storia italiana non si butta via niente, c’è una continuità di
fondo con il peggio delle nostre vicende, fatte di un anticomunismo
eversivo, bancarotte e spoliazioni di denaro pubblico, politica
corrotta, stragi, morti ammazzati, rapporti inconfessabili con le
organizzazioni criminali. Il passato, il tremendo passato italiano,
deve sempre restare non del tutto chiarito, perché i dossier, gli
uomini, i segreti, i ricatti che da quel passato provengono possano
essere riciclati nel futuro. Da questo punto di vista, la parabola
di Silvio Berlusconi, uomo «nuovissimo» che viene dal passato
vecchissimo di Gelli e affiliati, è la parabola dell’Italia.
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