di
Umberto
Santino, tratto da
Narcomafie
Maggio 2002
Prosperato grazie al proibizionismo, il traffico di droga è tuttora
l'attività più redditizia delle mafie (1000 miliardi di dollari
l'anno, secondo le stime della Banca Mondiale). Gli Stati
occidentali hanno cercato di reprimerlo – salvo servirsene per scopi
politici o militari – ma ne hanno anche favorito l'espansione con le
zone franche della globalizzazione neoliberista
Nel giugno del 1987, alla fine del processo
denominato “Pizza connection”, la Corte distrettuale di New York
condannò Gaetano Badalamenti e Salvatore Catalano a 45 anni di
carcere. Secondo i magistrati americani, Badalamenti per molti anni
era stato una sorta di capo dei capi del traffico internazionale di
eroina, che dalle raffinerie attorno all’aeroporto di Palermo
fluiva incessantemente verso il mercato degli Stati Uniti, e il
“gruppo Catalano”, in stretto collegamento con il boss di Cinisi,
aveva assunto negli ultimi anni la regia del traffico.
In realtà già allora la mafia siculo-americana non era l’unica
organizzazione criminale interessata al traffico di droga, ma con
ogni probabilità rivestiva un ruolo di primo piano, se non
egemonico.
Quel che è certo è che Badalamenti operava su piste già aperte in
precedenza. L’ingresso della mafia siciliana nel traffico di droga
era avvenuto molti anni prima. Il primo sequestro di una partita di
droga in terra di Sicilia rimonta al 1952: 6 kg di eroina furono
sequestrati ad Alcamo, a metà strada tra Palermo e Trapani, e
vennero denunciati mafiosi destinati ad avere un ruolo di primo
piano nella storia della mafia: Frank Coppola, tornato nella sua
Partinico dopo un lungo soggiorno negli Stati Uniti, Salvatore
Greco, esponente della ben nota dinastia palermitana, John Priziola,
indicato come capomafia di Detroit.
In quegli anni gran parte dei traffici avvenivano fuori dalla
Sicilia, ma ad opera di siculo-americani, di cui il più noto era
Lucky Luciano, che operava in stretta collaborazione con società
farmaceutiche come la Schiapparelli di Torino e la Saicom di Milano,
disposte a dirottare verso il mercato clandestino dell’eroina
quantitativi consistenti di morfina usata per scopi farmaceutici.
Operavano fuori dalla Sicilia anche i fratelli Salvatore e Ugo
Caneba, che imbarcavano verso gli Stati Uniti l’eroina fornita dai
corso-marsigliesi e in gran parte prodotta nel laboratorio milanese.
Da inchieste degli anni Sessanta risulta che la mafia siciliana
sarebbe stata «la principale artefice del contrabbando di
stupefacenti diretto dalla mafia statunitense» (Commissione
antimafia 1976, p. 459).
L’eroina prende il volo
Il patto di collaborazione tra mafia siciliana e mafia nordamericana
sarebbe stato siglato nel summit svoltosi a Palermo nell’ottobre del
1957, nella piena indifferenza degli organi investigativi, incuranti
della presenza all’hotel delle Palme di boss notissimi come Giuseppe
Genco Russo, Joe Bonanno, Lucky Luciano, Gaspare Magaddino. In
quell’occasione si sarebbe formato un gruppo operativo composto da
membri della famiglia Bonanno con la collaborazione di mafiosi di
Partinico e di Castellammare del Golfo, paese d’origine di Bonanno.
Le famiglie mafiose siciliane operavano come fornitrici di droga
alle consorelle americane, che avrebbero avuto il monopolio della
commercializzazione negli Stati Uniti e in Canada. Negli anni
Settanta la direzione sarebbe passata dagli americani ai siciliani.
Al di là di queste rappresentazioni inficiate da una buona dose di
semplificazione, quel che è certo è che la Sicilia in quegli anni
diventa laboratorio di produzione. Nel corso degli anni Ottanta
furono scoperte a Palermo e dintorni quattro raffinerie di eroina:
una in via Villagrazia, nei pressi della villa di Giovanni Bontate,
un’altra in contrada Piraineto di Punta Raisi, gestita da Gerlando
Alberti, un’altra a Trabia. Nel 1982 sarà scoperta una quarta
raffineria, a Palermo, in via Messina Marine. Ciascuna di esse ne
produceva 50 kg a settimana. La signoria territoriale esercitata
dalle famiglie mafiose – in particolare dalla famiglia Badalamenti
sull’area dove sorge l’aeroporto di Palermo, espressione di un
potere statuale che caratterizza la mafia siciliana fin dai suoi
primi giorni – si sposava con i traffici internazionali, a riprova
di un’elasticità e capacità di adattamento che non svelle le radici
ma le rafforza, funzionalizzando aspetti arcaici e premoderni alle
nuove occasioni di accumulazione offerte dal mercato mondiale.
Così, stando alle inchieste giudiziarie, quattro famiglie siciliane
(gli Spatola-Inzerillo, i Gambino, i Bontate e i Badalamenti)
avrebbero costituito un gruppo compatto, cementato anche da legami
di parentela, e assieme ai cugini americani avrebbero avuto un ruolo
egemonico nel mercato dell’eroina. A capo di questo gruppo sarebbe
stato il boss siculo-americano Carlo Gambino. Nello scontro con i
corleonesi, al centro della guerra di mafia dei primi anni Ottanta,
queste famiglie risultarono perdenti, ma i sopravvissuti
continuarono a gestire negli anni successivi il traffico di droga,
come risulta dall’inchiesta e dalle condanne del processo “Pizza
connection”.
Onore perduto? Andiamoci piano…
Sulla mafia di quegli anni circola una lettura schematica e
fuorviante: l’inserimento nel traffico di droga avrebbe snaturato
l’organizzazione “Cosa nostra” (denominazione venuta alla luce in
seguito alle rivelazione di Buscetta), si sarebbe verificata una
sorta di mutazione genetica che avrebbe sepolto sotto palate di
dollari le regole e i “valori” che avrebbero caratterizzato la
vecchia mafia, fedele alle sue radici contadine. Nella versione di
Buscetta, i suoi amici (da Bontate a Badalamenti) rappresentano la
mafia “buona”, che agiva nel rispetto di codici comportamentali
fondati sull’onore, mentre i corleonesi sono i portatori di una
sanguinaria deregulation all’insegna dell’arricchimento facile. In
realtà i protagonisti dei traffici di sigarette e di eroina sono
proprio gli amici di Buscetta, mentre i corleonesi erano i parenti
poveri che imbracciano le armi per chiedere una maggiore porzione
della torta. Su questa base una “mafiologia” tanto diffusa quanto
gratuita ha favoleggiato di una mafia tradizionale in competizione
per l’onore e il potere, che sarebbe stata soppiantata da una mafia
imprenditrice, che solo negli anni Settanta avrebbe scoperto la
competizione per la ricchezza.
La storia della mafia reale ignora distinzioni tra mafia buona e
mafia cattiva (la
strage di Portella della Ginestra e gli omicidi dei militanti
del movimento contadino non sono meno feroci degli omicidi e delle
stragi degli anni più recenti) e un’analisi adeguata legge gli
adattamenti dettati dai mutamenti del contesto come uno dei
caratteri fondamentali del fenomeno mafioso, la cui persistenza nel
tempo è frutto della capacità di combinare rigidità formale ed
elasticità di fatto. Senza questa elasticità la mafia sarebbe morta
con il feudo, non si sarebbe riambientata in una società urbanizzata
e a economia prevalentemente terziaria, e successivamente in uno
scenario sempre più internazionalizzato e finanziario. E il
mantenimento del radicamento territoriale l’ha salvaguardata dal
destino dei mutanti alla deriva. Così si è realizzato quel mix di
continuità e innovazione che informa i fenomeni di durata; la
signoria territoriale si è sposata perfettamente con la
“riproduzione allargata del capitale”, e ricchezza, prestigio e
potere, per la mafia (ma non solo per lei), hanno fatto e continuano
a fare tutt’uno.
Non c’è stata quindi nessuna degenerazione, nessuna mutazione da
“uomini d’onore” in “uomini del disonore”, ma questo non vuol dire
ignorare o sottovalutare le conseguenze che ha avuto l’inserimento
nel traffico di droga delle famiglie mafiose. Ci sono stati
aggiustamenti organizzativi (si è formata per qualche tempo una
struttura interfamilistica che gestiva contrabbando di sigarette e
traffico di droga) e la lievitazione dell’arricchimento ha scatenato
appetiti all’origine della conflittualità interna ed esterna, fino
al “delirio di onnipotenza criminale” di Riina e soci, culminato con
le stragi di Capaci, via D’Amelio, di Firenze e di Milano. Resta da
vedere se queste stragi siano state soltanto il frutto di un
“delirio” o di dinamiche più complesse innescate dai processi di
transizione che hanno portato alla cosiddetta “seconda Repubblica”.
Alcol e droga stesso copione
Se alla radice di questa stagione di sangue sta l’enorme
arricchimento dovuto al traffico di droga, non è difficile
individuare nel
proibizionismo la causa e l’occasione più propizia per la
scalata criminale della mafia e per la traduzione del suo agire in
impresa che gestisce, in regime di monopolio o di oligopolio,
l’offerta di un bene o servizio illegale con una domanda di massa.
Dal proibizionismo dell’alcol negli anni Venti a quello attuale
delle droghe assistiamo alla replica di un copione: i gruppi
criminali diventano soggetti economico-finanziari di prim’ordine con
tutto quello che ciò comporta come ruolo socio-politico e come
interazione, se non identificazione, con ambienti di potere. Gli
effetti più significativi del proibizionismo degli alcolici,
introdotto negli Stati Uniti con il Volstead Act del 1920 e durato
fino al 1933, furono l’inosservanza della legge e quindi
un’illegalità diffusa, l’esposizione a rischio dei consumatori, il
salto di qualità dei gruppi criminali e l’incremento della
corruzione dei pubblici ufficiali, dai poliziotti ai magistrati e ai
politici. «Siamo più grandi della U.S. Steel» sosteneva Mayer Lansky,
e personaggi come lui, come Al Capone, Lucky Luciano, Benjamin
“Bugsy” Siegel, non sarebbero diventati così noti, ricchi e potenti,
senza le grandi opportunità offerte dalla Prohibition. Si calcola
che Al Capone abbia intascato 60 milioni di dollari dal bootlegging
(spaccio clandestino di liquori). E questo arricchimento degli
imprenditori del crimine porta a un rovesciamento dei ruoli: se
prima erano i politici che riuscivano a controllare i gangsters, ora
sono questi ultimi che dettano ordini. «I own the police» («Ho in
mano la polizia»), diceva Al Capone, e non era una spacconata, anzi
i suoi legami andavano ben oltre la polizia di Chicago.
La storia del proibizionismo delle droghe è nota: dalla conferenza
internazionale di Shangai del 1909 alle Convenzioni dell’Aja (1912),
di Ginevra (1925, 1931, 1936), alla Convenzione unica sugli
stupefacenti del 1961 fino alla Convenzione di Vienna del 1988, si è
imposto il modello americano, fondato sulla criminalizzazione di
produzione, commercializzazione e consumo, con effetti che
riproducono e aggravano quelli generati dal proibizionismo
dell’alcol: l’espansione dei consumi e la diffusione
dell’illegalità, la lievitazione dell’accumulazione illegale e il
rafforzarsi e proliferare delle mafie attirate dai grandi profitti
realizzabili producendo e smerciando su scala mondiale un prodotto a
larghissima richiesta. Com’è noto, le stime del volume d’affari
annuale del narcotraffico hanno oscillazioni rilevanti. Secondo il
National Intelligence Council, sarebbe tra i 100 e i 300 miliardi di
dollari, mentre le Nazioni Unite parlano di 400 miliardi e la Banca
mondiale di 1000 miliardi. In ogni caso il traffico di droghe
sarebbe ancora l’attività più remunerativa: il traffico di armi
sarebbe al secondo posto con 290 miliardi di dollari, seguirebbero a
notevole distanza il traffico di rifiuti tossici (10-12 miliardi) e
la tratta di esseri umani (cfr. Alessandro Politi Traffici illeciti
per mille miliardi di dollari, in «Il Sole-24 ore», 26 novembre
2001).
Criminal agreement
Il mercato delle droghe negli ultimi decenni è diventato sempre più
complesso per il proliferare delle sostanze psicoattive,
l’espansione dei consumi e l’incremento dei soggetti criminali che
producono e commercializzano le varie droghe. Ai gruppi storici che
operavano da tempo sul mercato delle droghe (oltre alla mafia
siciliana e alle altre mafie italiane, la mafia turca, le Triadi
cinesi e la Yakuza giapponese) si sono aggiunti gruppi di formazione
più o meno recente, come i cartelli colombiani, le mafie albanese,
russa, nigeriana ecc. Alcuni gruppi, prima impiegati come
manovalanza criminale, hanno via via acquistato autonomia e si sono
messi in proprio.
Si può discutere l’uso generalizzato del termine “mafie” per i vari
gruppi criminali ed è certamente da respingere lo stereotipo secondo
cui ci sarebbe una piovra universale diretta da una cupola mondiale
che per qualche tempo sarebbe stata pilotata dal quasi analfabeta
Totò Riina. Anche l’espressione “crimine transnazionale”, usata
dalle convenzioni internazionali e dalla letteratura giuridica e
criminologica, è meramente descrittiva. Quel che è certo è che il
traffico di droghe ha aperto, ancora più del contrabbando di
sigarette, le porte del mercato internazionale e della
globalizzazione del crimine.
A un monopolio o oligopolio oggi si è sostituito un polipolio
dell’offerta, e mentre vari gruppi hanno fatto registrare livelli
notevolmente alti di conflittualità interna, non si sono verificati
fino a oggi episodi significativi di contrasto tra i vari gruppi
tali da far pensare allo scatenarsi di una guerra. Si è stabilito un
regime di convivenza pacifica, di criminal agreement, che dimostra
che anche i gruppi più violenti, come Cosa Nostra siciliana o la
mafia albanese, quando ci sono in gioco grossi affari riescono ad
agire, o a interagire, sottomettendo la cultura della violenza ai
dettami della razionalità economica.
Che tipo di rapporti si è stabilito tra vecchi e nuovi soggetti
criminali sul terreno del traffico di droghe e su altri terreni di
accumulazione illegale? Siamo di fronte a un universo in mutazione,
in cui si ripropone, in termini che bisognerebbe studiare
attentamente, la dialettica continuità-trasformazione,
radicamento-globalizzazione.
Da Corleone a Wall Street
Per quanto riguarda il nostro paese, negli ultimi anni le
organizzazioni criminali storiche e nuove hanno fatto registrare
significativi mutamenti in risposta alle ondate repressive e alle
novità del contesto. Cosa Nostra siciliana, dopo la stagione delle
stragi, si è “sommersa” e “inabissata”, cioè è tornata alla
mediazione, e per arginare l’emorragia dei “pentiti” ha innalzato le
barriere della segretezza e della compartimentazione, rivedendo i
criteri di reclutamento e disciplinando più rigidamente le relazioni
tra i vari sodalizi. Ma è significativo che alla sua testa, anche se
affiancato a quanto pare da un “direttorio”, ci sia un uomo per
tutte le stagioni come l’eterno latitante
Bernardo Provenzano, prima killer con Luciano Liggio, poi
stragista con Riina e ora regista della transizione nel nuovo
secolo.
Secondo la Dia, i rapporti di Cosa Nostra con i sodalizi criminali
stranieri sarebbero sporadici e inconsistenti (Dia 2001), ma da
recenti inchieste comincia a emergere una realtà ancora tutta da
esplorare. La relazione conclusiva della Commissione antimafia del
marzo 2001 parla di un “comparto estero” di Cosa Nostra e di una
«strategia di “globalizzazione finanziaria” delle organizzazioni
criminali nel contesto di una integrazione in chiave transnazionale
dei “mercati criminali”» (Commissione antimafia 2001). In realtà la
finanziarizzazione della mafia è un fenomeno avviato già da tempo,
anche se ha fatto fatica a emergere per la dittatura dello
stereotipo “mafia imprenditrice” presentato negli anni Ottanta come
una grande scoperta, mentre le analisi economiche sul crimine
organizzato erano state elaborate negli Stati Uniti già vent’anni
prima. Oggi si parla della possibilità che Cosa Nostra «si stia
ritagliando un ruolo internazionale tanto importante quanto evoluto;
un ruolo di struttura finanziaria in grado di attivare e controllare
attività illecite – condotte materialmente da varie organizzazioni
italiane e straniere che agiscono raccordandosi tra loro –
servendosi della medesima struttura che negli anni passati utilizzò
per gestire la parte finanziaria dal contrabbando di tabacchi
lavorati esteri e dal traffico di stupefacenti, e cioè i
trasferimenti di denaro, il riciclaggio e i reinvestimenti» (Dia
200). Bisogna vedere quanto giochi, in questa ipotesi, l’immagine
già consolidata nel recente passato.
La ’Ndrangheta avrebbe negli ultimi anni mutuato il modello
organizzativo di Cosa Nostra, con la creazione di mandamenti e
l’adozione di una struttura unitaria, e sarebbe l’organizzazione più
proiettata sul piano nazionale (in particolare in Piemonte, Liguria,
Lombardia, Toscana) e internazionale. La Camorra, strutturata in
molteplici gruppi in conflitto tra loro, intreccia attività
classiche, come estorsioni, usura, appalti, contrabbando di tabacchi
lavorati esteri e traffico di droghe, e nuove, come la raccolta e lo
smaltimento dei rifiuti, il commercio di carni dopo l’emergenza
“Mucca pazza”, e opera in collegamento con altri gruppi con
proiezioni a livello internazionale e internazionale, in particolare
in Germania e nel Regno Unito.
Anche la criminalità organizzata pugliese ha struttura reticolare e
i vari gruppi interagiscono fra loro e con altre organizzazioni
italiane e straniere, in particolare di etnia kosovaro-albanese, sul
terreno del traffico di clandestini e di stupefacenti, di cui la
Puglia è diventata uno dei crocevia più importanti.
Melting pot delle mafie
Tra i principali gruppi stranieri insediatisi nel territorio
italiano, gli albanesi sono i più numerosi e avrebbero assunto un
ruolo prevalente: sono i grandi rifornitori di droghe dei gruppi
criminali italiani e operano alla pari con essi. Dall’Albania
arrivano in Italia ingenti quantità di
marijuana,
eroina e
cocaina. Interrotta per i conflitti nell’ex Jugoslavia la via
balcanica dell’eroina verso il Nord Europa (ma recentemente si
sarebbe riaperta), i gruppi albanesi hanno cominciato a controllare
la cosiddetta “rotta balcanica meridionale”, che dalla Turchia
passando per la Bulgaria arriva in Albania e, attraverso il canale
di Otranto, in Italia. Gli albanesi hanno rapporti con i cartelli
colombiani, ricevendo sul loro territorio carichi di cocaina in
arrivo dai porti nordeuropei, in particolare olandesi, e non si
esclude che la “cocaina rosa” sia raffinata in Albania.
La mafia albanese è strutturata su base clanica e familistica e ha
rapporti continuativi con le organizzazioni pugliesi e campane ma
anche con la criminalità comune. I rapporti con organizzazioni
salentine cominciano fin dai primi anni Ottanta con il contrabbando
di sigarette e negli ultimi anni si è operato un patto di divisione
e territorializzazione del lavoro criminale con la Sacra corona
unita: i pugliesi gestiscono il contrabbando di sigarette e il
traffico di eroina, di cocaina e di armi; gli albanesi il traffico
degli immigrati clandestini e il racket della prostituzione e delle
droghe leggere, in aree ben delimitate sulle due sponde
dell’Adriatico (vedi Narcomafie, luglio-agosto 1998, ndr.).
La criminalità nigeriana è costituita da gruppi rigidamente
strutturati senza collegamento tra loro, con una forte connotazione
culturale (si fa un largo impiego di pratiche magico-religiose come
i riti voodoo) e le sue principali attività sono il traffico di
esseri umani, lo sfruttamento schiavistico della prostituzione e il
traffico di stupefacenti. Opera in particolare nelle regioni del
Centro-Nord ma è presente anche in Campania: qui, per l’esercizio
della prostituzione delle immigrate nigeriane, la Camorra riscuote
una sorta di tassa per l’occupazione del suolo. I nigeriani
sarebbero diventati negli ultimi anni da corrieri a servizio di
altre organizzazioni a imprenditori criminali in proprio,
collocandosi ai primissimi posti nella graduatoria dei trafficanti
internazionali. Stando alle fonti investigative, i sodalizi dediti
al traffico di stupefacenti avrebbero rapporti diretti con i
produttori e avrebbero un alto profilo organizzativo, sapientemente
mascherato fino all’invisibilità con la rinuncia all’uso della
violenza verso l’esterno (Dia 2001). I proventi delle attività
illecite sarebbero in buona parte investiti in Italia.
I rapporti della mafia siciliana con i cartelli colombiani rimontano
agli anni Ottanta: nell’ottobre del 1987 furono sequestrati sul
mercantile Big John nei pressi di Castellammare del Golfo, in
provincia di Trapani, 596 kg di cocaina destinati alla famiglia dei
Madonia. Allora si parlò di patto di esclusiva tra il cartello di
Medellín e la famiglia siciliana e nel ’91 a Milano fu arrestato per
riciclaggio il manager Giuseppe Lottusi, indicato come cassiere del
cartello colombiano. Allora la porta d’ingresso per la cocaina era
la Spagna, ora la droga arriva attraverso l’Albania e i colombiani
dispongono in Italia di vari centri logistici in cui vengono svolte
le fasi finali della raffinazione, e mentre gli uomini dei cartelli
curano le operazioni più complesse, i piccoli quantitativi di
cocaina vengono gestiti da piazzisti non collegati direttamente con
essi (Commissione antimafia 1999).
Non risulta fino ad oggi un ruolo significativo nei traffici di
stupefacenti dei gruppi criminali cinesi insediatisi in Italia, in
particolare nelle regioni del Centro-Nord. La criminalità cinese in
Italia è costituita da vari gruppi, con composizione variante dalle
dieci alle cinquanta unità, e le principali attività sono il
traffico d’immigrati, le estorsioni, le rapine e l’usura, praticate
all’interno del gruppo etnico in funzione del pagamento del debito
contratto dagli immigrati.
Operano nel Centro-Nord anche i gruppi criminali russi dediti a
varie attività, tra cui il traffico di stupefacenti. Non risultano
rapporti con le organizzazioni criminali italiane, se non per
acquisti sul mercato nero delle armi e per speculazioni finanziarie
come l’acquisto di rubli, scambiati con denaro di illecita
provenienza, destinati all’investimento in Russia in funzione di
riciclaggio.
Tra i nuovi arrivati ci sono anche i rumeni, mentre i turchi sono
vecchie conoscenze. Da tempo la mafia turca ha un ruolo di
primissimo piano nel traffico di eroina e tale ruolo risulta
confermato e potenziato negli ultimi anni. Ma i collegamenti con la
criminalità italiana, ampiamente documentati per il passato, secondo
fonti ufficiali negli ultimi anni si sarebbero affievoliti. In
Italia non siamo ancora al melting pot delle etnie e di conseguenza
anche del crimine, ma, come del resto per altri paesi occidentali,
la strada è quella indicata da tempo dal modello pluralistico
americano.
Un indotto interminabile
Come e più ancora forse di altre attività, il traffico di droghe non
solo riproduce e rafforza i gruppi criminali organizzati, ma pure
contribuisce a generare e a estendere il sistema relazionale che
ruota attorno ad essi. Questo sistema attraversa il contesto sociale
dall’alto in basso, coinvolgendo vari soggetti, dai produttori di
materie prime agli specialisti della raffinazione, dagli
spacciatori-consumatori ai professionisti del riciclaggio. Si
potrebbe dire che ci troviamo di fronte a uno dei fenomeni più
interessanti di interclassismo o transclassismo criminale. Su questo
terreno si incontrano modelli sedimentati in territori
geograficamente lontani, come la Sicilia e l’America Latina.
Se la Sicilia è la terra madre del modello mafioso, nella sua
articolazione complessa (dalle organizzazioni criminali di base – le
famiglie – alle strutture di collegamento e di direzione,
orizzontali e verticali, al blocco sociale che ruota attorno ad esse
sulla base della comunanza di interessi e della condivisione di
codici culturali, con un ruolo dominante esercitato dai soggetti
illegali e legali più ricchi e potenti: borghesia mafiosa), studi
sui paesi latino-americani hanno posto l’accento sulla formazione di
borghesie assimilabili a quella mafiosa siciliana (S. Kalmanovitz La
economía del narcotráfico en Colombia, in “Economia colombiana”,
1990; C. Krauthausen Padrinos y mercaderes. Crimen organizado in
Italia y Colombia, Planeta colombiana, 1998) e ricostruito un quadro
delle articolazioni del narcosistema (J. Rivelois Drogue et pouvoirs:
du Mexique aux paradis, L’Harmattan, Paris 1999) e del blocco
sociale prodotto e cementato dal narcotraffico. Le categorie
coinvolte sono numerosissime: si può dire che ben pochi restano
fuori. Si comincia con i contadini produttori, si continua con i
chimici, i trasportatori (autisti e piloti di navi), i mulas (uomini
e donne che imbottiscono il corpo di cocaina o ne ingoiano quantità
incapsulate nel cellophane), le guardie del corpo dei
narcotrafficanti, i traqueteros (ambasciatori del narcotraffico
sulle piazze degli Stati Uniti e di altri paesi), gli avvocati
difensori, i contabili, i consulenti finanziari, i giornalisti e
scrittori a servizio dei capi del narcotraffico per legittimare le
loro gesta, gli amministratori e i politici, i magistrati, i
doganieri, il personale del fisco, della polizia, i militari, il
personale coinvolto nelle attività di investimento dei capitali e
via discorrendo (M. Kaplan Narcotraffico. Gli aspetti sociopolitici,
Edizioni Gruppo Abele 1992). È un indotto interminabile messo in
piedi dall’economia della droga e dall’iperconsumismo della
ricchezza facile.
Questo modello si è ormai diffuso su scala planetaria, e mentre
nelle società occidentali le borghesie mafiose sono una componente
del sistema di accumulazione e di dominio, in molte realtà, a
cominciare dai paesi ex socialisti, sono le uniche borghesie
esistenti o rivestono un ruolo decisamente prevalente, per le grandi
convenienze offerte dai traffici illegali e le grandi difficoltà di
innescare dinamiche significative di accumulazione legale. Prima si
parlava di narcocrazie, oggi si parla di Stati-mafia e, anche se
bisogna evitare generalizzazioni e semplificazioni affrettate, il
traffico di droghe ha certamente un ruolo significativo se non
determinante nei processi di criminalizzazione delle istituzioni
fino alla coincidenza e sovrapponibilità tra gruppi criminali e
soggetti detentori del potere.
Predica bene razzola malissimo
Nei primi anni Ottanta il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan
dichiarò la “guerra contro le droghe internazionali”, indicando
nella produzione e nell’offerta estera il nemico dell’America,
contro cui battersi con una strategia basata su due punti
fondamentali: l’eradicazione delle coltivazioni e la distruzione
delle sostanze prima che passassero le frontiere, la repressione dei
trafficanti. Da allora gli Stati Uniti hanno proseguito su questa
strada, ma in realtà la guerra alla droga era condotta e continua ad
essere condotta con grande cinismo.
La droga è stata usata come fonte di denaro per finanziare
interventi militari contro il pericolo comunista e la guerra
contro di essa è stata il pretesto per imporre o rafforzare il
comando su territori di importanza strategica, come nel caso della
Colombia.
Nessuna meraviglia quindi se per queste operazioni sono stati
impiegati i servizi segreti, con grande spregiudicatezza, fino alla
complicità con i criminali e all’incentivazione del crimine. È nota
l’azione della
Cia negli anni Quaranta e Cinquanta in appoggio all’esercito
nazionalista cinese (il Kuomintang) contro i maoisti, con
l’incremento della produzione di oppio nel Sud-Est asiatico; negli
anni Sessanta nel Laos nella guerra segreta, finanziata dall’oppio,
contro i guerriglieri del Pathet Lao; negli anni Ottanta in
Afghanistan, a fianco dell’Isi, il servizio segreto pakistano, e con
i gruppi fondamentalisti in lotta contro l’invasione sovietica e in
Nicaragua a sostegno dei contras antisandinisti, sempre con largo
impiego dei capitali provenienti dal traffico di droghe (U.
Santino-G. La Fiura Dietro la droga, Gruppo Abele, Torino 1993).
Meno nota, ma non meno spregiudicata, l’azione del Mossad, il
servizio segreto israeliano, coinvolto nella Contras Connection e in
operazioni in Colombia.
Negli ultimi anni la guerra alla droga ha avuto una delle sue più
significative materializzazioni con il
Plan Colombia, un programma di fumigazioni delle coltivazioni di
coca e di riforme predisposto dal presidente Andrés Pastrana su
pressione dei circoli nordamericani e della Cia, lautamente
finanziato dagli Stati Uniti e con una fetta consistente del budget
destinata a spese militari. L’assistenza militare Usa si estende
anche ai paesi limitrofi Perù, Ecuador e Bolivia, e si configura
come una vera e propria militarizzazione del continente sudamericano
che usa la lotta alla droga come pretesto per il contrasto ai gruppi
guerriglieri e come trampolino di lancio per il controllo di un’area
caratterizzata da gravi crisi istituzionali e da un’instabilità
generalizzata.
Rappresentazioni di comodo
Già prima dell’11 settembre, e ancora di più dopo gli attentati alle
Torri Gemelle e al Pentagono, la lotta al terrorismo ha occupato la
prima pagina dell’agenda internazionale. L’immagine dominante è
quella dell’Occidente civile insidiato dagli “altri”: dai
terroristi, dagli Stati-canaglia che li proteggono, dall’Asse del
male (Iran, Iraq, Corea del Nord). Si dimentica che i talebani e lo
stesso
Bin Laden sono gli stessi che lottavano all’ombra della Cia
contro i sovietici e il governo comunista, che l’Afghanistan è
salito in vetta alla classifica mondiale dei produttori di oppio
perché esso serviva per finanziare la guerriglia anticomunista, che
Bin Laden ha interessi in molti paesi del mondo, compresi quelli
occidentali, al riparo del segreto bancario, che familiari di Bin
Laden sono stati soci in affari di George W. Bush fino ai primi anni
Novanta (U. Santino La fabbrica dei diavoli. A lezione dalla Cia:
fondamentalismo e droga in Afghanistan, www.centroimpastato.it.
2001).
Nell’immaginario corrente che vede il terrorismo come
un’inspiegabile incarnazione del Male, il traffico di droga ha un
posto in prima fila. Secondo la delibera n. 1373 del 28 settembre
2001 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, c’è una stretta
connessione fra il terrorismo internazionale e la criminalità
organizzata transnazionale, il traffico illecito di droga, il
riciclaggio di denaro sporco e il traffico illegale di armi. E
questa connessione legittimerebbe il ricorso alla guerra, così com’è
avvenuto in Afghanistan e potrebbe avvenire in altre aree del
pianeta. Come dimostra anche quanto sta avvenendo in questi giorni
nei territori arabi occupati della Palestina, non si fa nulla per
rimuovere le cause e si aggravano le situazioni da cui scaturisce la
scelta del terrorismo. Tutto ciò è in perfetta coerenza con le
logiche proibizioniste e militari che dominano le guerre alla droga,
in assenza di qualsiasi politica che ribalti gli effetti criminogeni
della
globalizzazione neoliberista, un contesto che stimola e
favorisce il ricorso all’accumulazione illegale, in cui la
produzione e il traffico di droghe hanno ancora oggi un peso
prevalente. |