Deputato della Repubblica. Eletto in Liguria. Classe
1948, di Imperia, democristiano nato in una famiglia democristiana. Il padre
Ferdinando, dirigente Inps, fu segretario della Dc locale e sindaco d’Imperia
fin dal 1952. Due anni dopo dovette dimettersi, perché travolto da uno scandalo:
il cognato aveva ottenuto il posto di primario chirurgico nell’ospedale locale e
si malignava che fosse stato aiutato dal potente sindaco democristiano. Erano
altri tempi, bastava niente per costringere alle dimissioni. Ma la politica
restò una malattia di famiglia. Il testimone passò dapprima al figlio maggiore,
Alessandro, che divenne anch’egli sindaco d’Imperia nel 1972, poi ancora nel
1977, e nel 1979 fu eletto in Parlamento. Claudio era il più piccolo dei tre
figli del notabile dc. Ma venne anche il suo momento. Aveva respirato aria
democristiana fin dalla culla: sua madrina di battesimo era stata Maria Romana
De Gasperi, figlia del grande capo della Dc. Già negli anni del liceo e poi
dell’università si era impegnato nel movimento giovanile democristiano. Non è un
teorico, ma un amministratore, un organizzatore: diventa presidente
dell’ospedale Novaro, poi dell’Unità sanitaria locale; è anche segretario
provinciale della Dc. Nel 1982, a 34 anni, diventa sindaco d’Imperia, come il
padre Ferdinando, come il fratello Alessandro. è una festa, in famiglia. Peccato
che un anno dopo esploda lo scandalo dei casinò. è il primo grande intreccio tra
politica e affari in cui compare, nel nord del Paese, lo zampino della mafia. La
storia è complessa e ancora oggi non svelata in tutte le sue pieghe, ma è
semplice nella sua essenza: si era saldato un triangolo, tra imprenditori che
puntavano a gestire le case da gioco, politici che concedevano gli appalti per
la gestione, ma volevano qualcosa in cambio, e mafiosi che attorno ai casinò
ronzano da sempre e che hanno ottimi argomenti, finanziari e non solo, per
arrivare al controllo del business. Nella notte di giovedì11 novembre 1983
polizia, carabinieri e guardia di finanza circondano e perquisiscono a tappeto i
casinò di Sanremo, Campione d’Italia, Saint Vincent e Venezia. Gli arrestati
sono una quarantina. Il «blitz di San Martino», come verrà chiamato, coinvolge
imprenditori, politici e boss mafiosi, e azzera due gruppi dirigenti locali, gli
amministratori pubblici del Comune di Sanremo e della Valle d’Aosta. Che cosa
era successo, nei mesi precedenti? In Liguria si erano affrontati due gruppi,
che puntavano a conquistare la gestione del casinò di Sanremo. Da una parte
Michele Merlo, titolare della società Sit, che aveva stretto accordi con i
democristiani Osvaldo Vento, sindaco di Sanremo, e Manfredo Manfredi,
parlamentare d’Imperia. Dall’altra il conte Giorgio Borletti, ultimo rampollo
della famiglia che a Milano aveva fondato la Rinascente, che era tornato dal
Kenya, aveva fondato la società Flower’s paradise e per battere Merlo e
conquistare il casinò si era rivolto ai socialisti milanesi Antonio Natali e
Cesare Bensi. Per vincere, sia Merlo, sia Borletti avevano messo mano al
portafoglio. Erano state pagate o programmate tangenti per 4 miliardi («parte a
Roma»: ma di questo non si è mai appurato niente). Dietro ciascuna delle due
cordate, poi, si muovevano, nell’ombra, altri personaggi: il finanziatore di
Merlo, per esempio, era Ilario Legnaro, uomo legato ai clan catanesi di Nitto
Santapaola e a Gaetano Corallo, che aveva già messo le mani sul casinò di
Campione; quanto a Borletti, si era affidato a Lello Liguori, il re dei night,
il padrone del Covo di Nord-Est di Santa Margherita, che gli aveva presentato
alcuni “amiciè come Angiolino Epaminonda detto il Tebano, Salvatore Enea detto
Robertino e Giuseppe Bono. Il primo era il principe della «mala» a Milano, gli
ultimi due erano i boss delle «famiglie» palermitane al Nord. Bella gara: da una
parte la Sit, con democristiani e catanesi, dall’altra la Flower’s paradise, con
socialisti e palermitani. Con queste formazioni, naturali i ricatti, le minacce,
il doppio gioco, i tradimenti... Il sindaco Vento, interrogato dai magistrati
dopo l’arresto, spiega: nel partito, il metodo delle tangenti è stato accettato
non soltanto «per motivi economici, ma anche politici», perché «chi non
accettava il piano di corruzione di fatto si isolava», «il dissenso avrebbe
significato una vera e propria emarginazione». In questo clima teso e confuso,
si arriva alla gara, il 25 marzo 1983. I commissari nominati dai partiti aprono
le due buste con le offerte di canone al Comune per la gestione del casinò di
Sanremo. La Sit di Merlo offre 21 miliardi, la Flower’s paradise di Borletti 18
miliardi e 900 milioni. Destinata a vincere, a suon di tangenti, era la Sit, ma
evidentemente qualcuno all’ultimo momento aveva fatto il furbo ed era passato
dall’altra parte: la commissione aveva stabilito che l’offerta non poteva
superare i 20 miliardi e 980 milioni, così la Sit è sconfitta perché, in questo
gioco miliardario, sfora il tetto per 20 miseri milioni... Scoppia il finimondo.
Tra i politici è tutto un accusarsi a vicenda. Tra le due imprese invece
comincia la guerra delle carte bollate, con ricorsi in Giunta, al Tar, al Coreco,
al Tribunale... è in questa baraonda che fa la sua comparsa sulla scena Claudio
Scajola, sindaco di Imperia ed esponente autorevole della Dc provinciale. Il 20
maggio 1983 si reca, con il collega di Sanremo Osvaldo Vento, a un incontro
segreto con Borletti, a Bourg Saint Pierre, in Svizzera. è Vento, che stava
trattando con entrambi i contendenti, a chiedere a Borletti di poterlo
incontrare, «in modo riservato», insieme a un altro politico, «in un clima di
sospetto e di timore che potesse essere violata la segretezza», scrive il
magistrato. Borletti accetta. L’incontro avviene in un ristorante. Dopo il blitz
di San Martino, il conte racconterà che «i due politici sostanzialmente gli
comunicarono che subito dopo le elezioni avrebbe ottenuto la casa da gioco», ma
«ad alcune condizioni»: la prima, che «la gestione fosse improntata a criteri di
imparzialità nei confronti delle forze politiche e quindi senza etichette
socialiste»; la seconda, che «venisse compiuto un “gesto”che potesse
controbilanciare l’offerta fatta dal Merlo a favore degli sfrattati» (Merlo
aveva offerto al Comune di Sanremo centinaia di milioni per dare un’abitazione
ad alcune famiglie restate senza casa); terzo, che venisse pagata una tangente
di 50 milioni. Borletti riferisce subito tutto al suo avvocato Pier Giusto
Jaeger e ad altre due persone (Lorenzo Acquarone e
Sergio Carpinelli). Quando i magistrati di Milano cominciano a indagare sui
casinò, Borletti racconta dell’incontro e i tre confermano. Ecco allora che
anche Scajola viene arrestato. Nella loro requisitoria, i pubblici ministeri
Corrado Carnevali e Marco Maiga scrivono: «Sono
stati raccolti elementi sufficienti per giustificare e imporre il rinvio a
giudizio dei due prevenuti (cioè Vento e Scajola, ndr). A loro carico vi sono le
dichiarazioni precise e dettagliate della parte offesa (Borletti, ndr),
inequivoche nella loro portata accusatoria; le stesse dichiarazioni hanno
trovato conferma in numerose testimonianze (Lorenzo Acquarone, Sergio Carpinelli,
Pier Giusto Jaeger)». E ancora: «Benché l’imputato Scajola abbia recisamente
respinto l’addebito, sostenendo che la richiesta oggetto di contestazione non
venne mai avanzata nel corso della conversazione, (...) le sostanziali
ammissioni sul punto del Vento (...) devono debbono ritenersi determinanti in
ordine all’effettiva sussistenza del reato, di cui sono presenti gli elementi
costitutivi tutti. La presenza dello Scajola nel particolare contesto, (...)
l’avere il Borletti, nelle confidenze effettuate ai testi di cui sopra si è
detto, riferito l’indebita richiesta a lui avanzata ad entrambi i pubblici
amministratori presenti nell’occorso, devono essere ritenute circostanze
sufficienti perché lo stesso Scajola sia chiamato a rispondere del reato a
titolo di concorso morale nel medesimo».
Il giudice istruttore Paolo Arbasino, ricevute le richieste del pubblico
ministero, non ritiene invece che gli elementi a carico di Scajola siano
sufficienti per un rinvio a giudizio e il 31 gennaio 1989 lo proscioglie.
Scajola aveva spiegato di essere andato all’incontro con Borletti, ma soltanto
per capire la situazione, che era alquanto confusa. Aveva confermato di aver
posto il problema della «gestione imparziale»(cioè non filo-socialista) del
casinò, ma aveva ribadito di non aver chiesto, né sentito chiedere, alcuna
tangente.
Per la cronaca: la guerra per il casinò di Sanremo finisce con un accordo tra le
due cordate che prevede il ritiro di Borletti, in cambio di 1 miliardo e 900
milioni subito, più 4 miliardi in seguito, a grosse rate mensili. Il processo
per lo scandalo dei casinò termina invece con molte condanne definitive, che
confermano nella sostanza l’impianto accusatorio.
E Claudio Scajola? Ritorna subito a fare politica. Torna a sedere sulla poltrona
di sindaco nel 1990, sempre sotto le bandiere della sua Dc. Nel 1995 ci riprova,
ma intanto la Dc si è dissolta in cento rivoli. Mette in piedi una lista
fai-da-te, «Amministrare Imperia», che si scontra con una lista dell’Ulivo e una
del Polo. Nella foga della campagna elettorale, degli avversari di Forza Italia
e An dice: «Sono soltanto dei fascisti». Vince il centrosinistra. Ma l’anno
dopo, nell’aprile 1996, mostra di essersi ricreduto: si candida alla Camera per
Forza Italia e viene eletto. Amministratore tenace, organizzatore efficiente,
democristiano a 24 carati, si fa subito notare da Silvio Berlusconi, che gli
affida un compito impegnativo: costruire il partito. Nominato coordinatore
nazionale di Forza Italia, lavora sodo. Trasforma il “partito di plastica” in un
partito vero. Come premio, Berlusconi gli affida il più delicato dei ministeri,
quello dell’Interno: con Scajola, al Viminale torna un democristiano doc, uno
della tempra dei Taviani, Scelba, Restivo... Scajola, per i suoi trascorsi è,
effettivamente, un esperto del ramo. A Genova, però, non lo dimostra:
responsabile dell'ordine pubblico al G8, sbaglia tutto. Poi lascia senza
protezione il consulente ministeriale Marco Biagi. Quando questi viene ucciso
dalle Br, Scajola prima scarica le responsabilità sui prefetti, a cui aveva dato
ordini di ridurre le scorte; poi dichiara che Biagi, colpevole di chiedere
insistentemente di essere protetto, era un "rompicoglioni". Troppo perfino per
il panorama politico italiano, anche perché le dichiarazioni di Scajola vengono
riportate da due grandi quotidiani, Corriere della sera e Sole 24 ore.
Scajola è così costretto alle dimissioni da ministro. Sostituito da uno che a
sua volta dieci anni prima era stato costretto a dare le dimissioni da
sottosegretario (Pisanu,
vedi...). Ma tornerà, vedrete...
genn 2003
Infatti è poi stato richiamato nel
Berlusconi bis di nuovo come ministro..la faccia come il culo...
febb 2006
BERRUTI MASSIMO
BRANCHER ALDO
CICCHITTO
FABRIZIO COMINCIOLI
ROMANO CIRAMI MELCHIORRI D'ALI ANTONIO DELL'UTRI MARCELLO
FIORI PUBLIO FORMIGONI ROBERTO
FRIGERIO GIANSTEFANO
GENTILE ANTONIO
GIUDICE GASPARE
JANNUZZI LINO
LO PORTO GUIDO
MACERATINI GIULIO MARTINO
ANTONIO MICCICHE'
GIANFRANCO MUSOTTO
FRANCESCO PALMA
NITTO PISANU GIUSEPPE
PREVITI CESARE
SCAJOLA CLAUDIO
SODANO CALOGERO
VITO ALFREDO
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