Senatore della Repubblica. Eletto a
Trapani. Di Forza Italia. Sottosegretario all'Interno nel secondo governo Berlusconi. Già vicepresidente della commissione Finanze, per un breve periodo è
stato il responsabile economico di Forza Italia. La famiglia D’Alì Stati è una
delle più potenti, facoltose e riverite del Trapanese. Le immense tenute
agricole, le saline tra Trapani e Marsala, le molte proprietà e (fino al 1991)
la quota di controllo della Banca Sicula costituivano l’impero governato con
autorità da Antonio D’Alì senior, classe 1919, che fu direttamente
amministratore delegato della banca di famiglia fino al 1983, anno in cui fu
coinvolto nello scandalo P2 (il suo nome era nelle liste di Gelli) e preferì
passare la mano al nipote Antonio junior, che poi nel 1994 aderì a Forza Italia
e fu premiato con un bel seggio al Senato. La Banca Sicula era uno dei più
importanti istituti di credito siciliani per numero di sportelli e per mezzi
amministrati. All’inizio degli anni Novanta la banca trapanese, già corteggiata
anche dall’Ambroveneto di Giovanni Bazoli, fu acquistata e incorporata dalla
Banca Commerciale Italiana, alla ricerca di un partner per superare la sua
storica debolezza in Sicilia. In seguito all’operazione, Giacomo D’Alì,
professore associato di Fisica, figlio di Antonio senior e cugino di Antonio
junior il senatore, è entrato a far parte del consiglio d’amministrazione della
Banca Commerciale. La Banca Sicula, prima di rigenerarsi dietro le
rispettabilissime insegne della Commerciale, era stata oggetto di un allarmato
rapporto di un commissario di polizia, Calogero Germanà, che poi, trasferito a
Mazara, aveva subito un attentato da parte di Leoluca Bagarella in persona e
oggi è dirigente della Dia (la superpolizia antimafia) a Roma. Il rapporto
ipotizzava che l’istituto di credito fosse uno strumento di riciclaggio di Cosa
nostra. E sottolineava il fatto che come presidente del collegio dei sindaci
della banca fosse stato chiamato Giuseppe Provenzano (il futuro deputato di
Forza Italia e presidente della Regione Sicilia), già commercialista della
famiglia Provenzano (l’altra, quella dell’attuale numero uno di Cosa nostra). Il
rapporto non ebbe però alcun seguito. Prima dell’incorporazione, la Banca Sicula
aveva realizzato un aumento di capitale di 30 miliardi. Niki Vendola, allora
vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, nel 1998, in un
rapporto inviato alla Vigilanza della Banca d'Italia, chiese: da dove erano
arrivati quei soldi? Chi aveva finanziato la ricapitalizzazione?
La risposta della famiglia D'Alì: tutto regolare; l’aumento di capitale della
Banca Sicula è stato finanziato da Efibanca, “contro pegno di un rilevante
pacchetto azionario, senza ingresso di nuovi soci; il finanziamento è stato poi
“integralmente estinto con il ricavato della successiva vendita delle azioni
alla Comit, che provvide a versare direttamente all’Efibanca le somme di
competenza.
La famiglia D’Alì ha avuto come campieri alcuni membri delle famiglie mafiose
dei Messina Denaro. Francesco Messina Denaro, il vecchio capomafia di Trapani,
fu per una vita fattore dei D’Alì, prima di passare la mano – come boss e come
“fattoreè – al figlio Matteo Messina Denaro, classe 1962, che dopo essere stato
uno degli alleati più fedeli di Totò Riina ai tempi dell’attacco stragista allo
Stato è oggi considerato il boss emergente di Cosa nostra, forse il nuovo capo
della mafia siciliana, all’ombra del vecchio Bernardo Provenzano. A riprova dei
rapporti tra la famiglia D’Alì e il boss, l'allora vicepresidente della
Commissione parlamentare antimafia Nichi Vendola nel 1998 esibì i documenti che
provano il pagamento a Matteo Messina Denaro, ufficialmente agricoltore, di 4
milioni ricevuti nel 1991 dall’Inps come indennità di disoccupazione. A pagargli
i contributi era Pietro D’Alì, fratello di Antonio il senatore e di un
Giacomo D’Alì che, negli anni Settanta, era stato attivista di un gruppo
neofascista siciliano.
Anche il fratello di Matteo Messina Denaro, Salvatore, ha lavorato per i D’Alì:
è stato funzionario della Banca Sicula e poi, nel 1991, è passato alla
Commerciale. Peccato che nel 1998 sia stato arrestato per mafia.
C’è un’altra vicenda in cui le strade dei D’Alì si incrociano con quelle dei
boss di Cosa nostra. Francesco Geraci, notissimo gioielliere di Castelvetrano,
gran fornitore di preziosi alla famiglia di Totò Riina, dopo essere stato
arrestato con l’accusa di essere uno dei prestanome di Riina, ha raccontato:
“Nel 1992 Matteo Messina Denaro mi ha chiesto di acquistare dai D’Alì un terreno
per 300 milioni da regalare a Riinaè. Si tratta della tenuta di Contrada Zangara,
a Castelvetrano. I firmatari del contratto sono Francesco Geraci il gioielliere
e Antonio D’Alì il futuro senatore. “Io sono intervenuto solo al momento della
firmaè, racconta Geraci. “Dopo la stipula andai spesso alla Banca Sicula e mi
feci restituire i 300 milioniè. Quel terreno, poi, nel 1997 è stato confiscato
in quanto considerato parte dei beni di Riina.
I D’Alì hanno sempre ribattuto su tutto. Francesco Messina Denaro, dicono, fu
assunto dal nonno di Antonio junior, l’ingegner Giacomo D’Alì, classe 1888,
quando “si era ben lontani dall’evidenziarsi di fenomeni che rivelassero la
instaurazione di un’economia criminale. Matteo Messina Denaro era “alle
dipendenze come salariato agricolo, “fino a quando non si scoprì chi fosse. Il
passaggio della tenuta di Zangara dai D’Alì a Riina è “una vicenda svoltasi
all’insaputa del venditore.
Gli impegni di senatore a Roma non lo distolgono dall’attività a Trapani: con
Francesco Canino (Cdu) e Massimo Grillo (Ccd) costituisce il triumvirato
informale che decide la politica della città. Anzi, ne è l’uomo emergente,
mentre gli altri due hanno dovuto negli ultimi anni accusare dei colpi. È questo
triumvirato che nel maggio 1998 raggiunge l’accordo per candidare a sindaco di
Trapani Nino Laudicina. Pochi giorni dopo l’elezione, Canino (uno dei politici
più bersagliati dalle critiche di Mauro Rostagno) viene arrestato per concorso
nell’associazione mafiosa che avrebbe monopolizzato gli affari e spartito gli
appalti del Comune di Trapani. Poi, nell’ottobre 2000, tocca all’assessore Vito
Conticello, arrestato mentre intasca una tangente. Era entrato in giunta solo
otto mesi prima, spinto da D’Alì, che subito dopo l’arresto lo difende: “Conosco
la capacità lavorativa dell’assessore Conticello e la sua correttezza; mi
auguro, pertanto, che il risultato dell’azione investigativa al più presto
riveli una diversa valutazione dei fatti. Salvatore Cusenza, della segreteria
regionale dei Democratici di sinistra, insieme ai politici dell’opposizione
denuncia il partito degli affari e chiede chiarezza. D’Alì ribatte: “Colgono
ogni occasione per criminalizzare gli avversari, con tentativi di sciacallaggio
politico di stampo bolscevico. Il 24 aprile di quest’anno è il turno del sindaco
Laudicina, arrestato per corruzione con altre sette persone. Perfino il vescovo
di Trapani grida: “È arrivata l’ora di reagire. No allo strapotere, è ora di
svegliarci!è. D’Alì dichiara: “Nessuno può arrogarsi il diritto di giudizi
sommari, né di strumentalizzazioni.
Da oggi comunque Antonio D'Alì, un tempo oggetto di indagini di polizia, alla
polizia darà ordini.
BERRUTI MASSIMO
BRANCHER ALDO
CICCHITTO
FABRIZIO COMINCIOLI
ROMANO CIRAMI MELCHIORRI D'ALI ANTONIO DELL'UTRI MARCELLO
FIORI PUBLIO FORMIGONI ROBERTO
FRIGERIO GIANSTEFANO
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MACERATINI GIULIO MARTINO
ANTONIO MICCICHE'
GIANFRANCO MUSOTTO
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